Buy American: luci ed ombre del protezionismo bideniano
Le necessità elettorali hanno portato Biden ad abbracciare parzialmente i dazi trumpiani, una scelta sgradita all'Unione Europea e che nasconde diverse insidie
Lo scorso 1 febbraio, Joe Biden riceveva l’endorsement di United Auto Workers, potente sindacato che raggruppa gli operai del settore automobilistico in Michigan ed altri stati dei Grandi Laghi. L’UAW aveva temporeggiato nel concedere il suo appoggio alla campagna elettorale del Presidente per una lunga serie di motivi, tra cui spiccava la preoccupazione di alcuni leader sindacali per la mancata creazione di una serie di dazi volta a tutelare le fabbriche di macchine elettriche americane dalla competizione straniera.
Lo spettro del protezionismo trumpiano, che raggiunse il suo apice con le cosiddette guerre commerciali, portate avanti contro Unione Europea e Cina, non è svanito dalla politica statunitense. Nonostante l’esito fallimentare, una larga maggioranza di americani appoggia misure volte a tassare le importazioni dall’estero e finanziare lo sviluppo e il re-shoring delle industrie negli Stati Uniti, con un consenso particolarmente forte per quanto riguarda l’hi-tech. Una platea che Biden non può permettersi di ignorare, al netto degli impegni presi all’indomani della sua elezione alla Casa Bianca.
La formulazione dell’Inflation Reduction Act, la maxi-manovra da 891 miliardi di dollari, è emblematica: di questi, circa 783 miliardi vanno alla sovvenzione di tecnologie verdi e altri sforzi di mitigazione del cambiamento climatico. Prendendo come esempio l’automotive, i produttori di batterie per veicoli elettrici ottengono sussidi aggiuntivi localizzando almeno il 40% della loro produzione negli Stati Uniti, e anche i consumatori beneficiano di crediti d’imposta nel caso decidano di comprare una vettura di un brand americano. Una misura fortemente voluta anche dai sindacati americani.
Biden non è il solo Democratico a dimostrare simpatie protezioniste. Dalla sua parte ha Sherrod Brown, storico Senatore dell’Ohio e campione del populismo progressista, che nella sua retorica fonde l'opposizione agli eccessi del libero commercio con un’attenzione tipicamente liberal per i diritti civili e sociali dei lavoratori americani. Brown, che nonostante i contrasti passati con Biden approva molte delle misure approntate dall’amministrazione dem, assumerà un ruolo molto importante nella campagna presidenziale di quest’anno, lavorando come surrogato della presidenza nella regione dei Grandi Laghi e facendo leva sull’elettorato dei colletti blu.
Il protezionismo è, tuttavia, una pericolosa arma a doppio taglio. Molte sono state le lamentele degli alleati europei, che temono competizione sleale da parte degli USA e che paventano il rischio di una corsa al sussidio da ambo i lati dell’Oceano Atlantico. Gli effetti dei dazi e di misure di 'sostituzione delle importazioni’ tendono a essere deleteri anche per i prezzi dei beni di consumo, che lievitano e aumentano l’inflazione, vero flagello politico dell’amministrazione Biden.
Era già successo durante la presidenza Trump, le cui guerre commerciali contro la Cina alimentate a colpi di dazi su alluminio ed acciaio finirono per aumentare drasticamente i costi delle materie prime, portando alla perdita di quasi 200.000 posti di lavoro nell’industria siderurgica di diversi stati dei Grandi Laghi e ad un relativo impoverimento delle economie locali, uno dei vari fattori nella vittoria di Biden nel 2020.
Nonostante tutto, la componente protezionista della ‘Bidenomics’ non cederà facilmente: le misure tariffarie sono fortemente popolari proprio in quegli swing states vinti da Trump nel 2016 e riconquistati da Biden quattro anni fa. Nonostante tutto, la presidenza Dem rimane il ‘male minore’ per i sostenitori del libero commercio.