Buckley voleva eleganza. Ha ottenuto Trump
Dal dibattito con Baldwin all’uso dei media: come il padre del conservatorismo colto ha vinto la battaglia delle idee e perso quella per la misura

Cambridge, Massachusets, 1965. Sul palco lo scrittore e attivista afroamericano James Baldwin denuncia il razzismo come ferita strutturale della democrazia americana. Di fronte a lui, William F. Buckley Jr. sorride, elegante, pronto a difendere un’idea diversa di ordine e civiltà. Quel dibattito è il simbolo di un paradosso: Buckley voleva dare al conservatorismo una voce colta, capace di dialogare con le élite, ma il suo progetto ha finito per aprire la strada a una destra che oggi parla il linguaggio del populismo violento e revisionista. Fondatore della National Review e volto televisivo di Firing Line, Buckley trasformò un movimento marginale in una forza culturale. Eppure, dietro il mito del gentiluomo conservatore, si nascondono ombre: gerarchie razziali, paternalismo e una visione della democrazia che privilegia l’ordine sull’eguaglianza. A cento anni dalla sua nascita, il suo lascito resta ambivalente: ha vinto la battaglia per la centralità della destra, ma non nel modo che immaginava.
Quando Buckley fondò National Review (1955), il conservatorismo era infatti un insieme eterogeneo di isolazionisti, libertari e anticomunisti. Era appena finita la stagione politica segnata dall’ingombrante presenza del senatore McCarthy e il suo obiettivo era trasformare quella galassia in un movimento coerente e “rispettabile”. Si potrebbe riassumere la sua strategia in fusionismo: un misto di tradizionalismo morale, libero mercato e anticomunismo, accompagnato da una “potatura” degli estremismi. Buckley impose un linguaggio nuovo: sofisticato, ironico, capace di attrarre élite intellettuali e ridefinire il dibattito pubblico. National Review divenne il laboratorio di questa visione, mentre Firing Line (1966–1999) portò il dibattito conservatore nel mainstream della televisione, puntando su confronto serrato ma civile. L’ambizione non era solo politica: era culturale, era dare al conservatorismo “una lingua e un palcoscenico” in grado di competere con l’egemonia liberal nel mondo dei media e delle idee.
Buckley non era soltanto un ideologo: era un personaggio pubblico con una forte impronta cosmopolita e mondana. Formatosi tra Europa e Stati Uniti, cattolico convinto, laureato a Yale e (per un periodo) impiegato alla CIA, portava in politica un’aria aristocratica e un eloquio elegante, ironico, spesso provocatorio. Già nel suo primo libro però, God and Man at Yale del 1951, il suo conflitto con quel mondo di élite di cui faceva parte divenne plateale. Il volume denunciava l’università come luogo di indottrinamento liberale, che inculcava con la forza collettivismo, ateismo e teorie keynesiane nella mente degli studenti, negando ogni ruolo all’individualismo e idee conservatrici. In questo contribuì a ridefinire i confini e i temi dell’antiintellettualismo della destra americana, anticipando la guerra ai campus che il Partito Repubblicano sta portando avanti negli ultimi anni. David Frum del The Atlantic, amico di Buckley, ne ha parlato in una delle ultime puntate del suo podcast con Sam Tanenhaus, autore della biografia Buckley: The Life and the Revolution That Changed America. Nella puntata Frum ricorda l’uso del latino da parte di Buckley per descrivere il proprio stile “suaviter in modo, fortiter in re”, cortesia nel metodo e fermezza nella sostanza, che si trasformava in una teatralità intellettuale capace di attrarre avversari con cui dibattere, soprattutto in pubblico. La sua dimensione religiosa era l’altro elemento centrale. Buckley considerava il cattolicesimo perno della sua politica e National Review rifletteva una cultura cristiana che informava scelte e alleanze. Questa miscela – cattolicesimo, letteratura, mondanità – creò il mito del gentiluomo conservatore, capace di far dialogare salotti, università e televisioni.
Il conservatorismo immaginato da Buckley privilegiava dibattiti raffinati, frasi latine e riferimenti filosofici, ma il suo successo aprì la strada a dinamiche mediatiche che non poteva controllare. Con Reagan, la destra divenne di nuovo largamente maggioritaria con una forte componente cristiana, ma il linguaggio televisivo di Firing Line lasciò spazio alle radio urlanti di Rush Limbaugh e, più tardi, alla polarizzazione televisiva di Fox. Buckley aveva vinto nella sua battaglia per l’anima politica del Paese, ma non nel modo in cui avrebbe voluto. Immaginava eleganza e misura, ma il movimento si è trasformato in una macchina populista capace di mobilitare masse arrabbiate più che convincere élite.
Buckley ovviamente ha cercato nel tempo di tornare sui suoi passi, ma il suo tentativo di costruire una destra colta aveva in sé i semi della normalizzazione di idee e retorica estreme nel Partito Repubblicano contemporaneo. In questo Buckley anticipava il ruolo di figure come Ben Shapiro o PragerU nel dare un’aria di legittimità culturale a concetti non supportati da dati reali, ma intrisi di pregiudizio ed estremismo, soprattutto quando si parla di questioni razziali. Forse l’articolo più famoso di Buckely, Why the South Must Prevail, del 1957, evidenzia questa ombra sul suo progetto politico-culturale. Il testo descriveva la supremazia bianca come una questione di “difesa della civiltà” contro il pericolo del suffragio universale in un contesto di divario di scolarizzazione tra bianchi e afroamericani, teorizzando che una minoranza “più avanzata” dovesse legittimamente sovvertire la volontà della maggioranza. “La comunità bianca ha questo diritto perché, per il momento, è la razza avanzata”. Ciò lo poneva in sintonia con i sostenitori dell’apartheid in Sud Africa e con le idee estreme di personaggio come George Wallace. Non è un caso che il discorso inaugurale di quest’ultimo come governatore dell’Alabama nel 1963, con la famosa frase “Segregazione ora, segregazione domani, e segregazione sempre”, fu pronunciato negli stessi giorni in cui Buckley pubblicava un suo resoconto di un viaggio in Sud Africa. Dietro il suo linguaggio forbito, l’impressione a decenni di distanza è quella di un’America che temeva l’uguaglianza.
Fu la violenza del segregazionismo ad allontanarlo da quelle idee. Nel 1965, in quel dibattitto rimasto tra i più famosi della storia americana, di fronte alla denuncia di Balwdin della natura strutturale e sistemica del razzismo nella società americana, Buckley rispose rilanciando idee che sono ancora oggi parte del discorso politico repubblicano sui rapporti razziali. Sottolineò il ruolo della responsabilità individuale nella ricerca del sogno americano, da cui sosteneva che gli afroamericani erano esclusi per ragioni culturali e di atteggiamento, non di razzismo sistemico. Per lui il progresso doveva avvenire col tempo, portato avanti dalla capacità dei singoli di migliorare la propria condizione economica e culturale. Questa retorica segnò il passaggio dal supporto per il segregazionismo del movimento conservatore all’evoluzione strategica verso l’uso dei codici della dog whistle politics, che sostituiva espliciti riferimenti razziali con parole d’ordine su “states’ rights”, “forced busing”, “law and order”. Buckley mobilitò un immaginario da crisi di civiltà, affermando che il movimento per i diritti civili, utilizzando un armamentario retorico-culturale antiamericano, non cercava l’uguaglianza, ma la “regressione” dei bianchi. Nel tempo tornò indietro su molte delle cose che disse e scrisse all’epoca. Nel 2004, in un’intervista per Time Magazine, disse: “Una volta credevo che potessimo evolverci dalla Jim Crow. Mi sbagliavo. Era necessario un intervento federale”. Ma i danni della sua retorica, un misto tra paternalismo vittoriano ed elitismo antidemocratico, si fecero sentire per decenni.
Nel dialogo con Tanenhaus, Frum propone questa lettura ambivalente di Buckley: figura determinante nel normalizzare il conservatorismo e generosa nel sostenere talenti, ma responsabile dell’apertura di canali che hanno condotto il movimento verso un mediacentrismo populista e una perdita di qualità intellettuale. Buckley ha in ogni caso vinto la sua battaglia culturale: il conservatorismo è una forza dominante, dotata di media, intellettuali e un armamentario di idee. Ma, alla prova del tempo, emergono due esiti divergenti. Primo, la promessa di una destra elegante e argomentata si è infranta nella pratica del populismo mediatico, che ha smarrito misura e rigore. Secondo, sotto le forme colte del progetto iniziale si agitavano tensioni antidemocratiche e una persistente rimozione del nodo razziale nella storia della destra americana. Il risultato è un’eredità potente ma ambivalente: Buckley ha dato alla destra una lingua e un palcoscenico. Il movimento conservatore, però, ha usato quella lingua per costruire un consenso che privilegia ordine e identità più che eguaglianza di opportunità. La domanda che resta è se sia possibile recuperare il meglio di Buckley, la fiducia nella forza delle idee, la qualità del dibattito, senza riprodurre le cecità che ne hanno accompagnato il successo e legittimato la dirompenza e violenza dell’era Trump.


