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Dobbiamo boicottare la cultura russa?
Le istituzioni culturali rimuovono autori russi, viventi o deceduti, dalle proprie rassegne e lezioni accademiche. Una strategia del boicottaggio che potrebbe avere effetti collaterali non voluti.
Una lezione su Dostoevskij quasi cancellata alla Bicocca di Milano per evitare polemiche sulla guerra in Ucraina, la proiezione della Corazzata Potemkin posticipata alla Leiden University, il film Solaris di Tarkovskij vietato in Spagna e il documentario sul poeta Chlebnikov bloccato in Lituania. Ancora, un'Ouverture di Čajkovskij eliminata da un concerto della Filarmonica di Cardiff perché «inopportuna, in questo momento». A segnalare alcuni niet legati alla cultura russa è Paolo Nori, il noto studioso e traduttore autore di decine di libri, tra cui La Grande Russia portatile e I russi sono matti. Il corso su Dostoevskij quasi cancellato, a Milano, era proprio il suo. Poi l’università, invasa dalle critiche e accusata di “censura”, ha riabilitato il corso. Happy ending, o meglio “счастливая концовка”, ma fino a un certo punto.
Nel mondo del politically correct in cui viviamo, bisogna fare attenzione a non dimenticare il “culturally correct”. Non è perché Putin nel 2022 dichiara guerra all’Ucraina che si debba aver paura a insegnare agli studenti perché I demoni o Delitto e castigo sono, ancora oggi, opere d’arte letteraria attualissime. Andare a fondo delle questioni politiche moderne dovrebbe significare studiare la storia, la cultura e la società di un popolo. Noi che facciamo, le ammutoliamo?
Alcune istituzioni culturali la vivono come una strategia di boicottaggio contro la guerra, una tattica già vista ai tempi dell’Apartheid o in riferimento al conflitto israelo-palestinese: premere il pulsante off sugli intellettuali e gli artisti che rendono orgogliosa la Russia nel mondo intero – dall’opera al balletto – per aggiungere una pressione culturale a quella economica. A chiamare al boicottaggio è stata anche l’Ukrainian Film Academy, che ha promosso una raccolta firme con oltre 11.000 adesioni, per chiedere ai distributori cinematografici di non lavorare più nel Paese e alle istituzioni internazionali di non includere film russi in rassegna per «non dare l’illusione che la Russia condivida i valori del mondo civilizzato».
Il rischio di questa strategia è di punire le persone sbagliate: chi è già perseguitato in patria e chi potrebbe offrire una prospettiva originale sul conflitto. Parliamo degli autori “antichi” ma anche quelli odierni, come il regista Kirill Sokolov, il cui film è stato cancellato dalla programmazione del Glasgow Film Fest nonostante metà della sua famiglia si trovi a Kyiv e lui stesso abbia firmato petizioni pubbliche contro la guerra.
Eppure, una delle principali ragioni per cui gli Occidentali criticano la Russia – da ben prima dell’inizio dell’attuale guerra – è la mancanza di libera espressione. Arte e media sono vincolati – per non dire osteggiati – da leggi, come quella sugli “agenti stranieri” e adesso la “norma anti fake news”, che fanno fuggire altrove buona parte degli artisti e dei giornalisti che vogliono lavorare esprimendo un pensiero personale. Ora quegli stessi artisti e giornalisti possono trovarsi a essere ostacolati anche dall’Occidente.
Dov’è il limite? Forse la risposta migliore è quella data dalla Ministra della Cultura francese, Roselyne Bachelot, che non ne ha fatta una questione di nazionalità, ma di posizione: «Non vogliamo lavorare con artisti o istituzioni che supportino evidentemente Vladimir Putin». Rientrano nel gruppo il ginnasta russo che ha mostrato la Z alla Coppa del Mondo in Qatar, il Direttore della Filarmonica di Monaco Gergiev (poi licenziato) e la soprano Anna Netrebko (che ha sospeso i suoi concerti). Tuttavia in questo senso abbiamo tracciato un’altra linea importante: Dostoevskij, Čajkovskij e tutti gli altri illustri deceduti possono restare dove sono.
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