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Blonde, Norma Jean e i lati oscuri della nostra psiche
L'ultimo film su Marilyn Monroe ha diviso il dibattito, mentre il regista si cimentava nel racconto di una storia tanto complessa ed enigmatica quanto fastidiosa e urticante.
Nell’ultimo mese Andrew Dominik, regista e sceneggiatore di Blonde, è stato tutto e il contrario di tutto. È stato un maschilista, ma anche un fervido femminista; è stato un antiabortista, ma anche un convinto sostenitore dell’aborto; è stato un detrattore di Hollywood, ma anche un complice silenzioso. È stato un narratore e poi è diventato il film, con buona pace di Godard che morendo pensava di portarsi dietro pure il Novecento e l’estenuante dibattito sul rapporto tra autore e opera cinematografica.
Poiché tutto ormai è lotta e posizionamento, in maniera netta, decisa e senza zone grigie, la sua Norma Jean aka Marilyn Monroe, che poi è la Norma Jean aka Marilyn di Joyce Carol Oates, è diventata, ancora una volta, il baluardo di entrambe le fazioni e il dibattito si è ripresentato nella forma che conosciamo già, maschilismo da una parte e femminismo dall’altra, mentre Andrew Dominik si cimentava nel racconto di una storia tanto complessa ed enigmatica quanto fastidiosa e urticante sia nei contenuti che nella forma.
Non sappiamo nulla della vita degli altri finché, origliando, spiando dal buco della serratura e spettegolando, non decidiamo di sapere tutto e quindi in Blonde ognuno ha visto quello che voleva vederci perché sono anni che in Marilyn ognuno noi vede quello che più gli conviene. Chi vuole chiarire analiticamente i motivi di un suicidio o di un aborto, chi colmare la distanza tra la vita privata e quella pubblica, chi spiegarci chi fosse Norma Jean, chi trovare le ragioni di tanta sofferenza, chi individuare i carnefici e le vittime, chi conoscere alla perfezione le dinamiche di un matrimonio, come se la vita fosse un puzzle e mettere insieme i pezzi aiutasse a trovare una risposta alle nostre domande. Non c’è altro modo di raccontare il mistero di Marilyn che non sia il caos, nel senso più lynchiano del termine, e non c’è altro modo di conoscere Marilyn se non accettando di non aver mai capito nulla della bambina che è stata e della donna che è diventata, nonché dei motivi della sua morte.
Dominik probabilmente lo sa, e infatti sceglie il romanzo delle Oates come punto di partenza, ma poi si mette davanti al film come se fosse sotto acidi e la sua messa scena diventa quasi più importante della storia, di Norma Jean e di Marilyn e il suo sguardo motivo di contesa per chi ha la smania di posizionamento. Eppure, Blonde è pieno di zone grigie e complesse a cui il DSM ha dedicato ampio spazio, come ricercare una figura paterna assente, e poi eccessivamente idealizzata e romanticizzata, nei partner sentimentali e cadere facile preda di uomini di potere o ereditare, o credere di ereditare, depressione, dipendenza emotiva e squilibri mentali da uno dei due genitori al punto da mettere in dubbio il proprio ruolo di madre. È in questo caos emotivo mai risolto che si nasconde Norma Jean e nasce Marilyn, nonostante non si riesca mai a capire chi sia schiava di chi e quanto operi una ai danni o a favore dell’altra.
Forse Blonde non è neanche un film su Marilyn e Norma Jean, forse Blonde è un film sulla maternità negata come sospiro di sollievo per paura che le colpe dei genitori ricadano sui figli o sui figli dei figli, o sulla maternità negata come fine di un vortice di distruzione e sofferenza che sembra ereditarsi di madre in figlia, o ancora sulla maternità negata come inettitudine al ruolo di madre perché si è ancora troppo figlia.
Negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, gli psichiatri Peter Neubauer e Viola Bernard, complice l’agenzia di adozione Louise Wise Services, davano in adozione, all’insaputa dei bambini e delle famiglie, gemelli a coppie di ceti sociali differenti per capire se la malattia mentale fosse ereditaria e come l’ambiente familiare potesse influenzare la crescita di bambini nati da una madre con gli stessi disturbi mentali. Su quanto siamo cultura o natura o su quanto le due si fondano insieme nelle nostre vita la sociologia si è arrovellata la testa per anni senza mai arrivare a risultati certi o verificati e senza mai capire quanto fosse ereditario o solo sedimentato nei meandri giù oscuri della nostra psiche.
Forse è questa la paura con la quale dovremmo convivere tutta la vita, il timore di non sapere mai in quale misura i nostri genitori ci hanno fregato o salvato o in quale misura ci siamo salvati o fregati da soli.