Black struggle: le donne nere e la lotta per i diritti
La lunga lotta delle afroamericane per la giustizia riproduttiva
Identificarsi come donna, negli Stati Uniti, non ha mai portato a una esperienza universale. Esistono da sempre tanti modi di vivere la dimensione del genere nel Paese a stelle e strisce, strettamente interdipendenti con le possibili intersezioni identitarie con altre dimensioni – come la sessualità, la classe, o il background etnico – o con l’orientamento politico; perché essere donne Democratiche o Repubblicane ha sempre portato a vite profondamente differenti. Tuttavia, una delle esperienze più raccontate, discusse, e approfonditamente ripercorse oggi è quella delle donne Nere negli Stati Uniti e la storia dei loro diritti riproduttivi.
Si tratta di una storia complessa, che ha visto sommarsi continue violazioni e negazioni, ma che ha portato una molteplicità di influenti donne Nere (e, più in generale, BIPOC - Black, Indigenous and People of Color) a sviluppare e promuovere il concetto di giustizia riproduttiva, su cui oggi si basa un solido corpo di teoria accademica e di lotte intersezionali.
Come ricostruito dall’accademica Kimberly Mutcherson nel suo lavoro Feminist Judgements: Reproductive Justice Rewritten, l’idea di una giustizia riproduttiva – capace quindi di travalicare i confini del diritto e dei diritti – nasce dalla lunga alterità con il femminismo bianco, troppo stretto, inadeguato e alle volte colpevolmente miope nei confronti delle esigenze sanitarie delle compagne Nere, la cui esperienza diretta ha spesso rimarcato quanto l’ambito della riproduzione sia uno spazio fatto di potere e costrizione. La continua minimizzazione di questioni significative per le donne Nere povere – come, ad esempio, l’abuso della sterilizzazione, l’esclusione da programmi di Welfare, l’accesso inadeguato all’assistenza sanitaria riproduttiva – ha portato a sviluppare la cornice della giustizia riproduttiva, capace di inserirsi in un più ampio paradigma di giustizia sociale retto su tre principali pilastri che Mutcherson individua nel “diritto ad avere un figlio, a non avere un figlio, a fare da genitore in comunità sicure e sostenibili”.
Oggi, si abbraccia il paradigma della giustizia riproduttiva anche sulla scia del lungo lavoro di politiche, attiviste e teoriche come Angela Davis, che per tutta una vita hanno apertamente sfidato le condizioni sociali e materiali in cui versano le comunità Nere statunitensi, fatte per l’appunto di “insicurezza alimentare, povertà, violenza di stato e alloggi inadeguati” e che si intersecano con storiche politiche di violenza riproduttiva. Secondo Mutcherson, infatti, a rendere inevitabile il passaggio da una battaglia in nome dei diritti riproduttivi a una più ampia, condotta sotto il vessillo della giustizia riproduttiva, è la storia di come le capacità riproduttive delle donne Nere negli Stati Uniti siano state per lungo tempo il bersaglio preferito di diffuse pratiche eugenetiche.
Donne Nere, femminismo bianco
Gli anni Sessanta e Settanta hanno visto il formarsi e il successivo sedimentarsi di un profondo divario tra un femminismo bianco da classe media - concentrato principalmente sul fronte del diritto all’aborto sulla scia della storica sentenza della Corte Suprema del 1973, Roe v. Wade - e un attivismo femminile Nero, capace di profonde critiche radicali tanto dirette verso i compagni ritenuti eccessivamente maschilisti e ossessionati dalla riproduzione per mantenere saldo e corposo il fronte di lotta nera, quanto verso le gravose mancanze delle compagne bianche. A fronte di tali premesse, figure come quella della scrittrice Alice Walker si impegnarono all ricerca di termini capaci di descrivere la complessa esperienza delle donne Nere; uno di questi fu womanismo, ritenuto più consono alla cultura Nera: “una womanista si differenzia dalle femministe bianche perché si impegna per un intero popolo, maschile e femminile”.
Quello che Walker sembrava sottintendere con una tale ricerca linguistica era l’idea che la liberazione delle donne Nere fosse materialmente diversa da quelle delle donne bianche in quanto a divergere era anche il contesto sociale, culturale e relazionale da cui le donne Nere si stavano liberando, portando dunque a obiettivi politici e di lotta più complessi.
Nel 1971, infatti, durante una conferenza nazionale sull'aborto organizzata dalla National Abortion Coalition del Michigan, il Third World Women's Workshop sostenne che la lotta contro la sterilizzazione obbligatoria senza consenso costituiva parte integrante della lotta per l'autodeterminazione del proprio corpo. A corroborare questa tesi, non solo i casi emersi anni dopo sui giornali, ma anche le statistiche degli anni Settanta sulla salute riproduttiva delle donne Nere, secondo cui queste ultime sarebbero state sterilizzate a un tasso più che doppio rispetto alle donne bianche.
Il caso delle sorelle Relf
Ventotto, gli Stati della Federazione che nel 1965 legittimavano per legge procedure di sterilizzazione involontaria; capofila tra questi, l’Alabama. Un incubo vissuto in prima persona proprio da Mary Alice e Minnie Lee Relf, rispettivamente di 12 e 14 anni quando vennero sterilizzate senza il loro consenso. Mentre gli Stati Uniti smaltivano l’ebrezza data dall’aver conquistato un diritto all’aborto costituzionalmente protetto a partire da gennaio 1973, nell’estate dello stesso anno le sorelle Relf pagavano le conseguenze di lotte riproduttive a metà, razzializzate e incapaci di considerare la complessità del mondo femminile americano.
Il famigerato caso delle sorelle Relf ha contribuito a far luce sulle responsabilità dell’allora Dipartimento della Salute, dell’Educazione e del Welfare (HEW) nel supportare abusi di tali pratiche sanitarie e a rivelare all’opinione pubblica che “tra le 100.000 e le 200.000 sterilizzazioni erano state effettivamente finanziate negli anni Settanta dal governo federale degli Stati Uniti”.
Come sottolineato nei suoi scritti da Angela Davis, le procedure di sterilizzazione hanno colpito ampie percentuali di donne BIPOC in tutti gli Stati Uniti, raggiungendo picchi preoccupanti soprattutto negli anni Settanta: “nel 1976 circa il 24% di tutte le donne indiane in età fertile era stato sterilizzato. […] L'Indian Health Service Hospital di Claremore, in Oklahoma, sterilizzava una donna su quattro che partoriva in quella struttura federale. […] Secondo uno studio nazionale sulla fertilità condotto nel 1970 dall'Office of Population Control dell'Università di Princeton, il 20% di tutte le donne nere sposate è stato sterilizzato. Circa la stessa percentuale di donne chicane è stata resa chirurgicamente sterile”.
Intentando causa per conto delle sorelle Relf, il Southern Poverty Law Center ha contribuito a esporre e denunciare il ruolo del governo federale in opere di violenza riproduttiva. Il caso Relf v. Weinberger ha posto ufficialmente fine alla pratica, obbligando i medici a ottenere il consenso informato prima di qualsiasi procedura volta a sterilizzare permanentemente la paziente - ma come raccontato in un lungo editoriale del NY Times, il XXI secolo non è stato certo testimone del completo radicamento delle sterilizzazioni forzate da parte dei governi statali, di cui ancora oggi giungono preoccupanti resoconti.