L'Asia di Biden
Nonostante uno spiccato spirito collaborativo, Joe Biden ha deciso di mantenere i dazi con la Cina, rilanciando l'importanza delle relazioni con le democrazie asiatiche.
America is back, scandiva Joe Biden il giorno del proprio insediamento. Il messaggio del ritorno statunitense nella comunità internazionale, dopo il “ritiro” che aveva caratterizzato l’era Trump, doveva risultaare di straordinaria chiarezza per la lettura degli alleati tradizionali di Washington, in particolar modo quelli asiatici che nei precedenti 4 anni avevano vissuto con non poca agitazione l’imprevedibilità dell’America First.
L’Asia orientale con la quale Biden è tornato a confrontarsi quest’anno da presidente è molto cambiata da quella con cui aveva avuto a che fare durante gli anni di Obama in qualità di vicepresidente. Negli anni intercorsi dal 2016, la regione aveva infatti dato prova di possedere una considerevole autonomia: non solo il primo trattato multilaterale di libero scambio asiatico (RCEP) era stato portato a termine ma, ancora più cruciale, il TTIP era sopravvissuto al ritiro statunitense e grazie alla guida giapponese era stato finalizzato nella nuova formula del CPTPP. C’era poi lo scontro aperto con la Cina, che sebbene fosse rimasto sommerso durante gli anni di Obama, è esploso con Trump e ha cambiato le dinamiche regionali.
Il problema di Biden, una volta entrato alla Casa Bianca, era quindi duplice: come gestire il confronto con Pechino e allo stesso tempo recuperare la fiducia e la capacità di coordinamento coi propri alleati regionali?
La competizione con la Cina di Xi Jinping, ormai riconosciuta come una esigenza strategica anche dai democratici, è ovviamente al centro della politica asiatica di Biden. La nuova amministrazione ha adottato un approccio in continuità con quello del Presidente repubblicano: nuove sanzioni alle industrie high-tech cinesi, mantenimento dei dazi (per ora) e un’azione diplomatica di contrasto all’influenza di Pechino. Eppure, la politica cinese di Biden di mandato risulta più complessa e articolata del confronto frontale impostato da Trump. La strategia di Biden (per come emersa in questi primi mesi) punta infatti a restringere la conflittualità con Pechino ai settori davvero chiave del confronto, come quello dello sviluppo tecnologico: abbandonate le velleità di un irrealistico decoupling delle due economie, il principio che sembra ispirare questa visione è quello dello “small yard, high fences”, che si propone di concentrare l’azione di contrasto statunitense su un fronte più ristretto ma con maggiori risorse. Non a caso Biden ha ritirato l’ordine emesso l’anno scorso da Trump che mirava a bandire dagli USA le popolari app cinesi WeChat e TikTok, le cui basi legali erano comunque deboli.
La conflittualità tecnologica però non esaurisce l’approccio alla Cina di Biden. Infatti, la nuova amministrazione statunitense non si è limitata a prendere solo misure per contenere la Cina, ma ha anche adottato una serie di politiche volte ad aumentare la capacità degli USA di competere con Pechino. Ad esempio, nel pacchetto di stimoli per le infrastrutture approvato recentemente parte dei fondi sono destinati alla rigenerazione dei settori tecnologici chiave per lo sviluppo della rivoluzione verde che guiderà il prossimo ciclo di crescita industriale. E ancora: le promesse fatte per elargire ai paesi in via di sviluppo nuove dosi di vaccini contro il Covid-19 sono certamente un impegno concreto per vincere la pandemia, ma sono anche un tentativo di ridimensionare il protagonismo cinese in fatto di diplomazia vaccinale.
Non va poi dimenticato che Biden si è anche dimostrato aperto alla cooperazione con Pechino sui temi (ormai pochi) in cui è ancora possibile costruire un’azione comune, come la lotta al cambiamento climatico.
Tuttavia, nessuna China policy può funzionare correttamente se ad essa non viene associata un’Asia policy coerente. Perciò, la strategia di conflittualità e competizione con la Cina delineata da Biden deve necessariamente avere come cornice un nuovo rapporto con gli alleati regionali, maggiormente solidale e coordinato. In fondo, il messaggio America is back doveva significare anche quello.
Joe Biden ha più volte dichiarato di voler creare un fronte delle democrazie, rinsaldando i legami coi vecchi alleati per poter fronteggiare meglio le sfide poste dalle potenze autoritarie del presente, Cina in primis. In poche parole, un’alleanza basata sulla condivisione dei valori liberali e democratici e sulla necessità di concertare uno sforzo collettivo per arginare l’influenza di Pechino.
Fin dalla propria inaugurazione, alla quale è stata invitata la rappresentante semi-ufficiale di Taiwan a Washington (non accadeva dal 1979), Biden ha provato a dimostrare la propria attenzione nei confronti delle democrazie asiatiche: il primo viaggio all’estero dei segretari di Stato e della Difesa è stato a Tokyo e Seul, mentre le prime visite di persona concordate da Washington sono state quelle del primo ministro giapponese Suga Yoshihide e del presidente sudcoreano Moon Jae-in. Tutto ciò mentre gli USA archiviavano la disputa sulla divisione dei costi per lo stanziamento delle truppe statunitensi, tentando di riguadagnare la fiducia dei propri alleati.
Per ora gli sforzi di Biden hanno ottenuti risultati misti. Da una parte Tokyo sembra sottoscrivere l’approccio statunitense: nelle dichiarazioni comuni emesse in occasione delle visite, Giappone e USA hanno espresso una posizione pubblica comune ben precisa e risoluta nell’intimare alla Cina di non minare l’ordine internazionale esistente. Degno di nota è stato anche il fatto che durante la visita a Washington Suga ha affermato la necessità che lo stretto di Taiwan rimanga pacifico e stabile, la prima menzione dell’isola in un incontro del genere dal 1969.
Lo stesso entusiasmo però non è stato condiviso dalla Corea del Sud, che rispetto al Giappone ha adottato una posizione molto più cauta. Se a Tokyo sono ben coscienti della potenziale minaccia cinese per l’ordine internazionale, a Seul il calcolo strategico è molto diverso: l’ascesa della potenza cinese costituisce comunque un rischio per il sistema internazionale di cui la Corea del Sud ha tanto beneficiato, ma Pechino rimane pur sempre un partner fondamentale di Seul. Secondo l’attuale presidenza sudcoreana, dover scegliere tra l’alleato USA e il partner strategico cinese non è nel miglior interesse del paese: non solo per via del consistente interscambio commerciale, ma anche per l’influenza che Pechino può esercitare sull’ingombrante vicino nordcoreano, col quale Moon Jae-in spera di rilanciare il dialogo prima che il proprio mandato scada a inizio 2022.
Un discorso a parte merita Taiwan. Seppur in mancanza di una formale alleanza tra i due paesi, si ritiene che gli USA interverrebbero militarmente in difesa dell’isola se Pechino decidesse di provare a invaderla. La vera questione, però, è l’affidabilità di tale impegno statunitense: Taipei aveva apprezzato le aperture promosse da Donald Trump in favore dell’isola e il cambio di amministrazione aveva creato nuove incertezze per moltissimi. Nonostante questo, Biden ha presto dimostrato di voler proseguire nel solco tracciato dal suo predecessore, non solo inviando una propria delegazione sull’isola (a riprova dell’importanza di Taiwan per il presidente) ma facendosi anche portavoce di Taipei in seno alla comunità internazionale.
Taiwan è anche un buon esempio per capire come la difesa dei valori liberali e democratici nell’arena internazionale si possa saldare con la competizione geopolitica che gli USA hanno intrapreso con la Cina. Taiwan infatti non è solo una delle più vivaci democrazie asiatiche, ma è anche la sede di TSMC, una delle imprese di semiconduttori più grandi e avanzate al mondo. Proprio per questo per gli USA è necessario creare un fronte comune che coinvolga tutte le democrazie, per creare un ecosistema politico e regolativo che incentivi i campioni delle tecnologie chiave del XXI secolo a mettere assieme le proprie risorse per vincere la competizione con le aziende tecnologiche cinesi.
Ma se le dichiarazioni congiunte tra capi di governo sono semplici da pronunciare, rimodellare le catene del valore dei settori di punta dell’economia mondiale sarà decisamente più difficile. Certo è che, se gli USA vogliono avere una possibilità di riuscirci, è meglio avere dalla propria parte i propri alleati che andare ognuno per la propria strada.
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