Un cambiamento irreversibile: l'ansia climatica degli alunni americani
La schizofrenia con la quale viene insegnato il cambiamento climatico nelle scuole americane, tra negazionismo e poteri economici che cercano di sostituirlo.
Mentre gli attivisti di tutto il mondo si sono riversati per le strade di Glasgow al grido – ormai storico – di «There is no Planet B», le immagini delle loro proteste facevano il giro del mondo e arrivavano dall’altra parte del globo. Lì, in una qualche remota cittadina del Texas, segnavano un ricordo indelebile negli occhi di un bambino o di una bambina incollati di fronte allo schermo della TV. Da dove proveniva quel fermento, quella voglia di rivincita nei confronti di un sistema ingiusto e degenerante? E cosa univa quelle ragazze e quei ragazzi, quelle tribù venute dagli angoli più remoti della Terra (e che la narrazione mediatica non percepisce come parte integrante di un movimento inclusivo) nel chiedere la giustizia climatica?
Forse sempre più bambine e bambini si staranno chiedendo che cosa sia questo nemico comune che chiamiamo riscaldamento globale e perché gli esseri umani ne siano la causa. Forse avranno preoccupazioni più importanti e la mia fantasia mi porta troppo lontano, dove l’innocenza di un bambino non sempre può arrivare.
Quanta sensibilità e quanta consapevolezza ci vogliono, per un genitore, nel trovare le parole giuste e imbarcarsi nella strada più difficile, che insegna a mostrarsi sensibili verso questa Terra che ci accoglie ma che diventa ogni giorno più fragile. E quanta fatica, per un insegnante, dover descrivere ai propri alunni quale destino ha riservato loro questa corsa infinita che chiamiamo globalizzazione, senza suscitare in loro il terrore di un futuro senza prospettive.
Sistemi scolastici a confronto
Da un confronto veloce con la realtà, i dati parlano chiaro: lo scorso anno, un’analisi del National Center for Science Education e il Texas Freedom Network Education ha rivelato l’inadeguatezza del sistema scolastico del Texas, dove la disinformazione regna sovrana. Un discorso che non vale solo per lo Stato più a Sud del Paese ma per molti altri stati che per anni hanno tratto beneficio dallo sfruttamento della ricchezza mineraria e petrolifera delle loro terre, divenute elementi centrali delle proprie culture.
La messa in stato d’accusa delle grandi corporazioni petrolifere in questi luoghi ha sempre trovato un primo limite nella resistenza della popolazione, restia a voler fare i conti con il proprio sistema economico. Come è noto, il cambiamento è prima di tutto culturale e – inevitabilmente – anche educativo, ma smuovere le coscienze dei più giovani non è sempre conveniente. Dalle contee dell’America rurale, dove vivono moltissimi immigrati, spesso in condizioni di estremo disagio, alle periferie dimenticate delle grandi città, la scarsa attenzione al tema del cambiamento climatico riflette le grandissime disuguaglianze interne alla società americana.
Molto del lavoro di denuncia di un sistema che è ancora fortemente ancorato alle logiche del negazionismo climatico si deve alla giornalista Katie Worth che negli ultimi mesi ha osservato in prima persona lo stato di salute delle scuole statunitensi, da Est a Ovest. I risultati, che ritroviamo nel suo nuovo saggio Miseducation, ci forniscono un’immagine precisa: dalla scuola d’infanzia al liceo, a studentesse e studenti si insegna che il cambiamento climatico sia prevalentemente un fenomeno naturale o, quantomeno, uno dei tanti temi sui quali si orienta il dibattito pubblico. In media, secondo un sondaggio NPR/Ipsos del 2019, il 55% degli insegnanti non si occupa di cambiamento climatico e non ne parla con i propri alunni.
Da un lato per ragioni culturali, dall’altro per un’evidente mancanza degli strumenti e dei materiali necessari per guidare gli studenti. È la stessa Worth a sottolineare la carenza di standard adeguati nella maggior parte delle scuole, nonostante alcuni istituti abbiano recentemente adottato i cosiddetti Next Generation Science Standards che prevedono – seppur parzialmente – lo studio del cambiamento climatico.
Le disuguaglianze si manifestano anche sul piano dell’eguale accesso ai materiali scolastici e accademici. A una scuola di Washington probabilmente gli editori proporranno testi orientati ad una visione decisamente più progressista (e realista) della crisi climatica ma bisogna immaginare che gli stessi editori non avrebbero alcun incentivo a proporre gli stessi testi a una scuola dell’Arkansas.
Le differenze in termini di standard accademici e adattamento dei curricula rispecchiano in modo netto le differenze tra Red States e Blue States e l’incapacità di tradurre questa necessità in un approccio bipartisan che possa essere adottato trasversalmente in tutto il Paese. Lo conferma la ricerca del National Center for Science Education (e del Texas Freedom Network) sopramenzionata: nel valutare i risultati accademici di ogni Stato, la maggior parte degli Stati rossi si è dimostrata insufficiente (ottenendo spesso una F) mentre gli Stati blu hanno riportato punteggi sempre superiori a B.
L’influenza dei Big Oil nelle scuole
L’emblema di questo fallimento sta tutto nelle strategie di convincimento messe in atto per anni dalle società petrolifere e dall’industria del carbone nelle scuole pubbliche. Dai volumi illustrati dell’Oklahoma Energy Resources Board (OERB), il cui protagonista Petro Pete si fa portatore di messaggi controversi sul cambiamento climatico nell’idilliaca città di Petroville, alla versione negazionista di Bill Nye, il professor Leo, le cui lezioni sull’affidabilità del fracking vengono trasmesse in molte scuole dell’Oklahoma.
L’OERB – che non è l’unica organizzazione no-profit vicina al mondo delle Big Oil a finanziare lo sviluppo di programmi scolastici negazionisti – ha speso negli ultimi anni 40 milioni di dollari nell’istruzione scolastica e nel 2019 ha inviato a scuole e librerie dello Stato circa 9.000 copie dell’ultimo volume della saga di Petro Pete, Petro Pete’s Big Bad Dream.
Con lo stesso scopo, nel 1981 è nata l’American Coal Fundation, il cui unico obiettivo è quello di inserire specifiche attività e progetti favorevoli all’estrazione di carbone – le “Coal-Related Activities for Elementary Schools” – all’interno dei programmi scolastici. Stratagemmi come giochi di memoria (Bingo e Parolieri a tema carbone) o gite fuoriporta in centrali a carbone, sarebbero anche modi leciti per stimolare il pensiero critico degli alunni, se solo tenessero conto dell’altra faccia della medaglia.
Se solo raccontassero che dall’altra parte del mondo, a Nuova Delhi, livelli record di inquinamento prodotti dalle loro centrali a carbone privano migliaia di bambine e bambini dell’inalienabile diritto allo studio. D’altronde, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, l’educazione è prigioniera delle diseguaglianze che attraversano e valicano i confini delle nostre società.