L'anomalia delle Midterm 2022
Dissimili da quelle del 2010 e del 2014, ma molto simili a quelle del 2018. I Democratici reggono meglio del previsto, i Repubblicani ne escono dilaniati e con un nuovo frontrunner.
Quando ero io presidente, mi beccai una brutta sculacciata alle elezioni di metà mandato…. Se allora fossimo riusciti a mantenere la maggioranza al Senato, oggi avremmo una Corte Suprema molto diversa.
Così Barack Obama nel comizio che sabato scorso ha tenuto a Philadelphia - non a caso nel cruciale Stato della Pennsylvania - per dare il suo contributo finale alla campagna elettorale delle Midterm 2022.
A volerla dir tutta di brutte sculacciate lui ne prese due, non una.
Una prima volta alle Midterm 2010: all'epoca i Democratici detenevano una vasta maggioranza in entrambi i rami del Congresso, ed erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che - ancor più - a maggioranze parlamentari locali, le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore.
Alla Camera, per riprendersi la maggioranza, ai Repubblicani bastava rimontare di 39 seggi: ne conquistarono ben 63. Si trattò della più ampia vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell'ultimo secolo: per rinvenire un record superiore bisognava risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di Grover Cleveland. Fu grazie a quella "onda rossa" che nel 2010 Paul Ryan (futuro candidato alla vicepresidenza, a fianco di Mitt Romney) andò a presiedere il cruciale House Budget Committee, poltrona che fino ad allora era occupata dal Dem John Spratt così come il seggio del South Carolina dal quale questi venne detronizzato dopo quasi trent'anni: significa dunque che aveva vinto 14 elezioni consecutive.
Le Midterm di Obama
Al Senato, i Democratici nel 2010 non persero la maggioranza assoluta, ma passarono dalla cosiddetta “supermaggioranza” a prova di ostruzionismo, che avevano già perso all’inizio dell’anno con l’elezione di Scott Brown in Massachusetts, a una maggioranza semplice di sei senatori.
A Chicago, sweet home del Presidente Obama e roccaforte democratica da decenni, i Democratici persero anche il seggio senatoriale che dal 2004 al 2008 era stato proprio di Obama.
Per quanto riguarda i governatori, i Democratici, che fino ad allora ne detenevano 26 su 50, persero circa una dozzina di Stati. Da lì in poi, Obama si trovò a governare con tre quarti degli Stati USA tenuti dai repubblicani.
Alla batosta del 2010 era pur sempre seguita nel 2012 la rielezione di Obama e quindi nuovamente le Midterm nel 2014. A quel punto la grande domanda era se i Repubblicani sarebbero riusciti a conquistare i sei fatidici seggi necessari per aggiudicarsi - per la prima volta dal 2006 - la maggioranza anche al Senato, mantenendo quella alla Camera già espugnata da quattro anni. Ne bastavano sei, ne conquistarono nove: espugnarono North Carolina, Colorado, Iowa, West Virginia, Arkansas, South Dakota e persino un seggio in Montana che i Dem detenevano da oltre un secolo.
Quando Obama si era insediato nel 2009, i Democratici avevano al Congresso 59 Senatori su 100 e 256 Deputati, e i Repubblicani venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile una cover story di TIME); appena cinque anni dopo, il partito del Presidente si avviava ad avere 44 senatori e poco meno di 200 deputati. I Repubblicani si ritrovarono con la più ampia maggioranza al Congresso dal Secondo dopoguerra, il che significava che Obama non poteva più fare quasi nulla senza il loro consenso.
Per quanto riguarda l'elezione dei Governatori, il conto che nel 2014 gli elettori presentarono al Partito del Presidente fu ancora più salato. I Repubblicani vinsero praticamente tutto quello che c’era da vincere: tutti gli Stati in bilico, e anche qualche Stato che tanto in bilico non era considerato.
In Florida, dove i Democratici avevano candidato quel Charlie Christ che ai tempi di Bush aveva governato lo Stato come Repubblicano centrista e che aveva cambiato casacca dopo essere stato stracciato da un emergente Marco Rubio nelle primarie per il Senato, il governatore repubblicano Rick Scott – pur non essendo particolarmente popolare – riuscì a strappare la rielezione.
In Wisconsin il conservatore anti-sindacati Scott Walker, che molti davano per politicamente morto già nel suo primo anno di governo, venne trionfalmente rieletto con quello stesso confortevole vantaggio di sette punti con il quale aveva superato la prova del recall.
In Texas la Democratica Wendy Davis, della quale si era vagheggiato che avesse qualche possibilità di “spostare a sinistra” la più grande roccaforte repubblicana, non si avvicinò non dico alla vittoria, ma nemmeno ad una sconfitta onorevole: perse con distacco di circa venti punti percentuali, e – da femminista – non prevalse nemmeno tra l’elettorato femminile.
Ecco: questi sono due eccellenti esempi, peraltro entrambi recenti, di Midterm disastrose per il partito del Presidente.
Ora, seppure a scrutinio ancora caldo e anzi nemmeno ultimato, non pare avventato affermare che queste Midterm 2022 non somigliano né a quelle che Obama subì nel 2010, né a quelle altrettanto disastrose del 2014 che Obama stesso sabato scorso agitava come spauracchio.
La somiglianza col 2018
Semmai la somiglianza parrebbe esserci, ovviamente a parti invertite, con le Midterm del 2018: nessuno tsunami contro il partito del Presidente – che allora era Trump – e anzi una apprezzabile "tenuta" di quest'ultimo.
Alla Camera nel 2018 i Democratici strapparono ai Repubblicani 41 seggi, riconquistando la maggioranza che portò Nancy Pelosi alla presidenza: un buon risultato, ma di per sé non eclatante.
Tuttavia al Senato, viceversa, i Repubblicani non solo non persero la maggioranza: addirittura conquistarono due seggi in più. Questo sì fu un risultato abbastanza clamoroso, e assai rilevante sul piano concreto: una maggioranza solida al Senato è molto più importante per il Presidente rispetto a quella alla Camera, perché il Senato ha anche potere di conferma o veto su tutta una serie di importanti nomine presidenziali, a cominciare da quelle dei giudici.
Le roccaforti Repubblicane non vennero scalfite. In Texas, dove i riflettori erano puntati sul tentativo di Beto O’Rourke di spodestare Ted Cruz, lo sfidante Democratico si dovette accontentare di una sconfitta di soli tre punti, sorprendentemente risicata per un Democratico nel Lone Star State - ma del resto altrettanto inusuale era stato anche l’investimento finanziario e mediatico che il partito aveva concentrato su questo tentativo, anche a livello nazionale.
In Florida i Repubblicani non solo si tennero il posto di governatore, al quale venne eletto per la prima volta quel Ron DeSantis del quale ora tanto si parla, ma quello uscente, il trumpiano Rick Scott, strappò il seggio al Senato al Democratico Nelson.
Probabilmente per Trump la parte più amara di quelle Midterm stava nelle vittorie che i Democratici conseguirono nella elezione dei governatori in Stati del Midwest come il Wisconsin e il Michigan, che avevano “fatto la differenza” nella sua elezione alla Casa Bianca due anni prima. Infatti, due anni dopo sarebbero stati proprio Michigan e Wisconsin (assieme alla Pennsylvania) a "fregarlo".
Come si vede, l'esito dello scrutinio in via di ultimazione in queste ore somiglia più a quello delle Midterm di Trump 2018 che alle due di Obama.
Alla Camera era dato per scontato che i repubblicani avrebbero riconquistato la maggioranza, ma le aspettative erano che lo avrebbero fatto con un margine più che doppio rispetto a quello, modestissimo, che invece è uscito dalle urne: stando alle ultime proiezioni, sì e no una decina di seggi.
Anche il Senato avrebbe dovuto essere un bersaglio relativamente facile: Biden due anni fa era stato eletto avendo nella camera alta la maggioranza più risicata possibile e immaginabile; in realtà nemmeno una vera maggioranza bensì una parità di 50 contro 50, con il voto della vicepresidente Kamala Harris a fare da ago della bilancia a favore del partito del Presidente. Per far venir meno una "non maggioranza" come questa, ai repubblicani basterebbe guadagnare anche un solo seggio.
La sconfitta del GOP di quest’anno
Non basta l'inaspettata rimonta di Ron Johnson in Wisconsin, dove si terrà la Convention Nazionale che nel 2024 confermerà a Milwaukee il candidato Repubblicano alla Casa Bianca, perché la sua è solo una riconferma; e per la stessa ragione non basta nemmeno la vittoria del "convertito al trumpismo" J. D. Vance in Ohio, che comunque subentra a un altro Repubblicano, Rob Portman.
Se lo scrutinio in Arizona, che sta andando a rilento come già due anni fa, non partorirà sorprese rispetto alla conta parziale che vede in testa la candidata Democratica, bisognerà vedere come andrà a finire in Nevada, dove il candidato Repubblicano Laxalt è in vantaggio, ma mancano ancora migliaia di voti spediti per posta, che potranno essere scrutinati fino a sabato. Il punto è che quand'anche in Nevada lo scrutinio del voto per posta non cambiasse l'esito attualmente rilevato, favorevole ai Repubblicani, comunque questo non sarebbe sufficiente per il partito di Trump per strappare la conquista della maggioranza al Senato, e rischierebbe invece di tradursi nel mantenimento della attuale "non-maggioranza" 50/50.
Il guaio per i Repubblicani è che hanno perso in Pennsylvania, dove il seggio senatoriale in ballo era detenuto sin qui da un repubblicano non trumpiano che non si è ricandidato; alle primarie Trump ha pesantemente sponsorizzato il Dottor Mehmet Oz, un medico e noto personaggio televisivo, che ha ottenuto la candidatura solo per andare a perdere miseramente contro John Fetterman, il vicegovernatore Democratico uscente, nonostante quest'ultimo avesse avuto un ictus a maggio.
Per questo per conquistare una "vera" (seppur risicatissima) maggioranza di 51 a 49, i Repubblicani a questo punto debbono necessariamente vincere anche in Georgia, il che si deciderà fra un mese. Lì infatti il governatore Kemp, uno dei pochi repubblicani anti-trumpiani rimasti, è stato rieletto in carrozza; viceversa, al senato il trumpiano Walker è addirittura dietro al Democratico Warnock, e siccome nessuno dei due ha raggiunto il 50% si andrà al ballottaggio il 6 dicembre.
La situazione governatori e l’opzione DeSantis
Per quanto riguarda i governatori, si partiva da un riparto che vedeva il partito di Trump in vantaggio per 6 Stati: 22 avevano un governatore Democratico, e 28 un governatore Repubblicano. Alla fine è probabile che il conteggio rimarrà pressoché invariato: i Democratici hanno strappato Massachusetts e Maryland, i Repubblicani il Nevada. In Arizona, anche per questo conteggio toccherà attendere l'agonia di uno scrutinio scandalosamente lento.
Più che altro fa notizia la larga misura di alcune riconferme: in Texas, dove lo sfidante Democratico Beto O’Rourke ha perso con un margine di una dozzina di punti, quasi quadruplo rispetto a quello con il quale perse la sfida per il Senato contro Ted Cruz nel 2018, ma soprattutto in Florida, che sino a pochi anni fa eravamo abituati a considerare il più grande degli swing state e che invece pare sempre più saldamente trasformata in un nuovo Texas. Qui il popolarissimo governatore Ron DeSantis, che nel 2018 aveva strappato l'elezione con un margine invisibile a occhio nudo dello 0,4%, stavolta è stato rieletto trionfalmente con un impressionante margine di quasi 20 punti, il più ampio dell'ultimo mezzo secolo e il più ampio di sempre per un repubblicano in Florida. Forse trainato da lui, anche il senatore Marco Rubio è stato rieletto con un margine quasi altrettanto generoso. Presumibilmente questo risultato spingerà DeSantis ad insistere nel coltivare la sua ambizione di candidarsi alla Casa Bianca nel 2024, il che lo pone in drammatico conflitto con Trump, con il quale condivide quasi del tutto la linea politica, ma al quale si rifiuta di cedere il passo.
L'opzione DeSantis nel 2024 rappresenterebbe insomma un tentativo di "trumpismo senza Trump", che molti già caldeggiano, ma al quale non si potrà arrivare senza spargimento di sangue.
Stay tuned…