Ma esiste ancora l'Anglosfera?
Quello che una volta era l'impero coloniale più grande del mondo oggi è diventato un claudicante e schizofrenico sistema di alleanze che necessita di un evidente rinnovamento.
Esiste un’Anglosfera in questo XXI secolo? Un gruppo di nazioni legate da un rapporto speciale ed eccezionale con radici in una comune lingua, cultura, storia, destino. Sembra più la trama per un nuovo capitolo degli Avengers che geopolitica. E infatti, 80 anni dopo la firma della Carta Atlantica, forse è così. L’anglosfera, quel complesso sistema di relazioni tra i paesi fondati dai coloni inglesi nelle Americhe e nel Pacifico, come realtà politica è ormai un mito.
Certo, fare l’esercizio retorico della somma dei PIL e della potenza militare restituisce un quadro ancora di preponderanza sulla scena mondiale, ma nei fatti il più delle volte tutto si riduce ad un esperimento posticcio basato sull’uso comune della lingua inglese.
Uno dei pochi campi dove una forma di speciale alleanza diventa visibile è quello dell’intelligence. L’alleanza chiamata Five Eyes, un’eredità della collaborazione atlantica durante la Seconda guerra mondiale e soprattutto la guerra fredda, permette il coordinamento e la condivisione di informazioni tra le agenzie di spionaggio di Regno Unito e Stati Uniti, a cui nel tempo si sono aggiunti tre paesi del commonwealth, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Ebbene, anche uno dei pochi segni concreti dell’esistenza di un’anglosfera mostra ormai i suoi limiti, soprattutto di fronte all’emergere della potenza cinese nel Pacifico. Quando quattro dei membri dell’alleanza hanno accusato il governo di Pechino di star commettendo atti di genocidio contro la minoranza degli Uiguri nello Xinjiang, la Nuova Zelanda si è tirata indietro. Dopo aver visto l’Australia sperimentare sulla propria pelle gli effetti di una guerra commerciale con il gigante asiatico, il governo, per bocca della ministra degli esteri Nanaia Mahuta, ha detto no ad un’estensione dell’alleanza oltre gli obiettivi del trattato. Una mossa che ha permesso al paese di rassicurare la Cina, da cui dipende per il 30% del proprio export, e di evitare incomprensioni con il paese da cui arriva la stragrande maggioranza dell’intelligence condivisa tra i Five Eyes, gli Stati Uniti.
Di fatto l’idea stessa dell’esistenza di un’anglosfera è sorta storicamente soltanto quando serviva di volta in volta gli interessi di questa o quella parte politica sui due lati dell’Atlantico, con il Pacifico sullo sfondo.
Trovatosi in un mondo che non riusciva più a dominare, fu soprattutto il Regno Unito a dare vita all’idea di una solidarietà anglosassone come alternativa ad un impero in crisi. Idee su come riorganizzare la Pax Britannica emergevano già negli anni ’70 dell’Ottocento durante i dibattiti dell’Oxford Union all’Università di Oxford. La vastità poco gestibile dell’impero, l’emergere del nazionalismo nelle colonie, la crescita di potenze imperiali concorrenti portò le élite britanniche a domandarsi in che forma preservare il potere dell’isola. Di qui l’idea di una transizione verso un gruppo di nazioni alleate, unite dal rapporto con la madrepatria, dopo un controllato processo di concessione di indipendenza e autonomia agli stati creati dai coloni bianchi.
Tuttavia, gli eventi della prima metà del XX secolo e l’evoluzione del pensiero politico portarono ad una revisione parziale del progetto. Non un’alleanza basata solo su uniformità razziale e rapporto con la corona, ma anche su una comunanza istituzionale, di valori politici e obiettivi strategici. La Seconda guerra mondiale rese necessaria poi una seconda trasformazione, quella cruciale. Una Pax Anglo-Americana, almeno in Occidente, guidata dagli Stati Uniti ormai pienamente coinvolti nella politica internazionale e garantita dal Commonwealth.
Gli obiettivi e i principi erano quelli poi esplicitati nella Carta Atlantica nel 1941. La fine dell’uso della guerra col fine dell’espansione territoriale, libertà di commercio e dei mari, autodeterminazione dei popoli, miglioramento delle condizioni economiche attraverso il capitalismo e il social welfare, il mantenimento della pace attraverso la cooperazione internazionale.
Pur avendo origine da motivazioni più contingenti, la necessità di Roosevelt di legare il governo inglese a degli obiettivi di lungo termine e quella di Churchill di coinvolgere gli americani nella guerra, l’alleanza atlantica aveva definito l’ordine liberale internazionale del dopoguerra. NATO, GATT, ONU, la stessa CEE nacquero all’interno e come conseguenza di quell’ordine. Ciononostante, in un mondo in cui l’influenza del Commonwealth è scemata anno dopo anno con una velocità sorprendente, quell’alleanza, la “special relationship”, è diventata sempre più solo uno strumento della retorica di una classe dirigente britannica orfana dell’impero.
Questo è evidente soprattutto nel dibattito post-Brexit. Lasciare l’UE ha costituito in questo senso una conferma per quelli che, come Boris Johnson, credono che il posto naturale del paese sia nella mitica anglosfera, e non a Bruxelles. Un’anglosfera forse ridimensionata nei piani, fatta di accordi di libero scambio e cooperazione nella difesa che vadano a sostituire quanto perso con Brexit. Tuttavia, come nel passato, questi piani, che segnalano la crescente preoccupazione britannica per un’irrilevanza presente e futura, ignorano completamente le priorità di quei paesi che Londra è ansiosa di contare tra i propri partner. Perché per quanto gli inglesi siano affezionali al concetto, l’anglosfera è più che altro un insieme di potenze regionali che definiscono la propria politica estera principalmente sulla base del rapporto con il governo americano. Il che vale soprattutto per il Canada, mentre per Australia e Nuova Zelanda urge concentrarsi su ciò che accade vicino ai propri confini, e con gli Stati Uniti stessi che devono ancora decidere se un Regno Unito fuori dall’UE è ancora utile come lo era all’interno dell’unione, un contraltare prima dei francesi e poi dei tedeschi.
A parte questo la nuova amministrazione americana ha altro a cui pensare. Joe Biden è di fronte ad un bivio palese, dopo che in parte il referendum del 2016 e soprattutto 4 anni di Trump hanno messo in crisi l’ordine nato nel ’41 e il ruolo degli Stati Uniti in esso. L’incoerente e miope sforzo di Trump di dirottare la politica estera americana verso America First, la sensazione di un potere di leadership messo in crisi dalla concorrenza cinese, il mito della democrazia americana oscurato dagli eventi dello scorso 6 gennaio, costringono l’amministrazione a rivedere completamente il proprio approccio all’ordine globale. Perché, dopo il danno, seguire l’istinto comprensibile di mettere indietro le lancette non è più un’opzione.
Biden stesso durante la campagna presidenziale lo ha in qualche modo ammesso nel suo dichiarato intento di costruire una politica estera al servizio della classe media americana e della difesa dei valori democratici. Come disse il segretario di stato Dean Acheson nel 1950, “gli Stati Uniti non possono stare seduti nell’atrio in attesa, con un fucile in mano” e questo significa che il paese ha ancora un interesse materiale nell’ordine globale, lo stesso dichiarato da Wilson e da Roosevelt. Deve però ancora decidere come “America is back” si tradurrà nel concreto. Se la divisione tra “democrazia e autocrazia” di cui parla il Presidente si riferisce, come in passato, semplicemente al confronto tra Cina e Russia da una parte e le ricche democrazie dell’occidente dall’altra, se la politica estera nei fatti si ridurrà ad un pragmatico e utilitaristico trumpismo senza Trump, se, come in Inghilterra, sarà al servizio unicamente di logiche interne. Oppure se assisteremo ad una nuova fondazione dell’ordine liberale, fatto per le sfide di questo secolo.
Ciò che è certo è che Johnson può anche firmare simboliche nuove carte atlantiche al G7 per rassicurare un elettorato spaventato dalla realtà concreta di Brexit, ma il futuro dell’Occidente è ancora la Casa Bianca a doverlo plasmare, con gli altri, tra cui gli inglesi, che seguono.
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