Amy Coney Barrett, la giudice che non vuole piacere
La giudice si accoda alla super maggioranza conservatrice quando serve, ma lei non la usa come vorrebbero Alito e Thomas

Nel 2020, Donald Trump e Mitch McConnell regalarono alla destra americana una super maggioranza alla Corte Suprema. La nomina di Amy Coney Barrett sembrava il coronamento di una strategia di lungo periodo: una giurista cattolica, conservatrice, pronta a ribaltare Roe v. Wade e a consolidare decenni di battaglie ideologiche. Eppure, da allora, Barrett ha confuso tutti. La destra la accusa di essere una “D.E.I. hire”, la sinistra sogna un improbabile riallineamento. Ma forse il problema è che nessuno ha davvero ascoltato o letto Barrett.
Nel suo libro Listening to the Law, Barrett non si presenta come una militante, ma come una giurista metodica. L’originalismo, ereditato dai suoi studi e dalla pratica legale sotto il giudice Antonin Scalia, non è una bandiera politica, ma un metodo interpretativo. L’originalismo è una teoria interpretativa del diritto costituzionale secondo cui i giudici dovrebbero applicare la Costituzione secondo il significato che le sue parole avevano al momento della ratifica. Non si tratta di nostalgia, ma di metodo: l’originalista non cerca di adattare il testo ai tempi moderni, bensì di rispettarne la struttura originaria, lasciando al legislatore — e non alla Corte — il compito di aggiornare le norme.
È una visione che limita l’attivismo giudiziario e che, per Barrett, rappresenta una forma di umiltà istituzionale. “I giudici sono arbitri, non re”, scrive. E ancora: “Il ruolo della Corte è rispettare le scelte che il popolo ha già condiviso, non dire loro cosa dovrebbero volere.” È una visione che richiama sicuramente Scalia, ma che si distanzia dall’attivismo di colleghi come Alito e Thomas.
La frustrazione è palpabile. Alito scrive opinions furiose, Thomas si appella alla storia come fonte unica di verità giuridica. Barrett, invece, corregge, dissente, si ritrae. È stata definita “la Hermione Granger dei conservatori”, quella che dice ai colleghi uomini che stanno sbagliando. In un caso recente, ha criticato Thomas per aver abusato della storia nel decidere sulla legittimità del brevetto della frase satirica Trump Too Small. “Il record storico non basta da solo”, ha scritto nella sua concurring opinion.
Barret però non è una moderata. Vota spesso con la maggioranza conservatrice, e ha contribuito a spostare la Corte a destra su armi, aborto, ruolo delle agenzie federali, affermative action. Solo che lo fa con cautela, con metodo, con disciplina. Non cerca il consenso, né la popolarità. “Il mio giuramento richiede la disponibilità a essere impopolari”, scrive. Il suo originalismo non è semplicemente lo strumento di un rinnovato attivismo conservatore, che cerca di sfruttare il più possibile la super maggioranza regalatagli da Trump e Mitch McConnell. La frustrazione di Alito e Thomas viene proprio dalla realizzazione di questa rara opportunità storica e dalla fretta, vista la loro età avanzata. La loro missione, più volte espressa in diverse sentenze, è abbattere la rete di precedenti che tiene insieme il principio del substantive due process, il fondamento giuridico che nell’ultimo secolo ha garantito la tutela dei diritti non esplicitamente enunciati nella Costituzione (privacy, autonomia personale, libertà di decidere della propria gravidanza, diritto di sposare chi si vuole etc.). Barrett, molto più giovane, non sembra condividere questo assolutismo sulla questione e sicuramente non avverte lo stesso senso di urgenza.
Come emerge anche dal suo libro, la sua missione è invece ridare all’originalismo dignità accademica e di pensiero, anche a costo di rovinare la festa ai suoi colleghi più attivisti, ma comunque frustrando quelli che a sinistra sognano un improbabile riallineamento.
I democratici, infatti, proiettano su di lei desideri e illusioni. Alcuni la vedono come una nuova Souter (nominato da Bush senior, sposatosi nel tempo su posizioni più liberali), altri sperano in una svolta alla Stevens (nominato da Ford, divenuto forte critico del secondo emendamento). Ma Barrett non è una drifter. È una accademica prestata alla Corte, che continua a mantenere un ufficio all’Università di Notre Dame. Le sue alleanze con Sotomayor e Kagan sono tattiche, non ideologiche. E quando vota contro Trump, lo fa per coerenza metodologica, non per simpatia politica.
Barrett è arrivata alla Corte in un momento di transizione e tensione. La pandemia, la morte di Ginsburg, le elezioni imminenti nel 2020. La sua conferma è stata rapida, controversa, senza un solo voto democratico. Eppure ha mostrato una sorprendente indipendenza. Ha frenato sull’espansione dei diritti religiosi guidata da Alito, ha votato inizialmente contro l’accettazione del caso Dobbs prima di sottoscrivere la decisione finale.
Il suo stile è quello di una giurista che ama le regole, non le rivoluzioni. Ha insegnato procedura e interpretazione testuale. Nei suoi scritti accademici si è occupata di temi che persino i colleghi consideravano troppo tecnici. “Attenzione, potere, coolness, elitismo: non le interessano”, ha detto un collega di Notre Dame al New York Times. E questo si riflette nel suo lavoro alla Corte.
Barrett è anche l’unica madre di bambini in età scolare ad aver mai servito come giudice. È la più giovane, l’unica che non provenga da Harvard o Yale. È una outsider senza una squadra di appartenenza: dissente dai conservatori anche nelle sue concurring opinion, ma non abbraccia i liberal. Scrive opinioni separate, annota divergenze, si ritaglia uno spazio intermedio. In un caso sull’aborto in Idaho, si è unita agli altri due altri giudici repubblicani “moderati”, Roberts e Kavanaugh, permettendo temporaneamente le interruzioni di gravidanza. Alito ha definito la sua posizione “patentemente insostenibile”. Alcuni attivisti di destra l’hanno accusata di non avere abbastanza coraggio. Ma Barrett sembra impermeabile alle pressioni. “Sono guidata dal metodo”, scrive, “non dalle mie preferenze politiche.”
In realtà la sua distanza da Trump è apparente, ma solo in superficie. È la giudice di sua nomina che ha votato meno spesso a favore delle sue posizioni, ma non ha fatto mancare la sua firma nei momenti che contavano. In quella che forse è la sua majority opinion più consequenziale, lo scorso giugno Barrett ha messo fine alla possibilità che ingiunzioni dei tribunali federali si possano applicare a livello nazionale. Questo era il limite più evidente all’azione legislativa della Casa Bianca, che nell’impossibilità di legiferare in un Congresso permanentemente bloccato, agisce soltanto tramite decreto. L’effetto proprio di Trump v. Casa forse è ancora più ampio di Dobbs, in quanto riscrive il ruolo delle corti federali come limite costituzionale all’azione del governo, limitando le ingiunzioni ai soli stati o parti coinvolte nelle cause. La sensazione però, è che Barrett non stia rispondendo a pressione degli attivisti MAGA, come sperano in tanti a destra. Non ce n’è bisogno. La giudice sta semplicemente applicando con metodo filosofie giuridiche di cui si faceva da portavoce già dalla sua cattedra a South Bend.
In un’epoca di estrema polarizzazione, Barrett rappresenta in ogni caso una fonte di frustrazione per entrambe le parti. Per la destra, è troppo lenta e riflessiva. Per la sinistra, troppo coerente nel suo proceduralismo per essere conquistata. Ma proprio questa coerenza, questo rifiuto dell’attivismo, è ciò che rende il suo originalismo interessante e forse più consequenziale. Non è una controrivoluzione, è una lezione. E in tempi di crisi costituzionale, il metodo forse conta più dell’ideologia.