La lotta dell'America profonda al cambiamento climatico
Fuori dalle metropoli statunitensi, le aree rurali si organizzano per combattere la crisi climatica. Oltre ogni credo politico, la speranza di salvare un Paese intero è nella partecipazione dal basso.
Immaginate di vivere in un Paese dove le aree rurali costituiscono il 97% della superficie terrestre. Immaginate poi che questo sia, contemporaneamente, il secondo Paese al mondo per inquinamento da emissioni di CO2 prodotte ogni anno. Infine, immaginate che in quel Paese ci siano migliaia e migliaia di persone che lottano per contrastare il cambiamento climatico, ma che vivono prevalentemente nelle aree urbane.
Se dovessimo descrivere – in maniera volutamente superficiale ma, non per questo poco veritiera – il modo in cui l’attivismo ambientalista si è sviluppato negli ultimi anni negli Stati Uniti, avremmo davanti a noi un’immagine precisa: quella di un sistema in cui una larga fetta della popolazione si sente completamente tagliata fuori dal dibattito nazionale – e dunque dal processo decisionale – che porta alla definizione delle politiche ambientali del Paese e che impatta anche (e soprattutto) sulle loro vite. Un dibattito che, solo recentemente, con le presidenze Obama prima e Biden poi, ha portato al centro dell’attenzione nazionale la presenza di evidenti disuguaglianze nel modo in cui la popolazione viene colpita dal cambiamento climatico.
Rural Natives
Quando si pensa a modelli di resilienza nella tutela degli ecosistemi naturali negli Stati Uniti, solitamente si fa riferimento alle comunità di nativi americani e al funzionamento delle riserve sul territorio del Paese. Tuttavia non sono le sole realtà a essere maggiormente esposte ai rischi del cambiamento climatico. Lo sono anche le comunità rurali, che dalla natura per secoli hanno tratto beneficio, incentrando il proprio sviluppo economico su settori come l’agricoltura, la pesca e l’allevamento.
Come rilevato da uno studio pubblicato di recente su Science, la perdita quasi totale dei territori indigeni (stimata intorno al 99% dei precedenti possedimenti), relega oggi le comunità native in aree che sono in media più vulnerabili al cambiamento climatico e ai suoi effetti.
Un discorso analogo vale per le aree rurali – che coincidono in parte con le zone oggi abitate dalle comunità native (come nel caso del New Mexico e in Oklahoma) – dove un aumento sia in termini qualitativi, che quantitativi, dei fenomeni meteorologici anomali ed estremi, ha finito per alimentare le disuguaglianze socio-economiche e demografiche su tutto il territorio.
Il mondo secondo l’America rurale
L’America rurale è costantemente messa alla prova e non sorprende che soprattutto negli Stati rossi, nel 2016 e nelle ultime elezioni, i cittadini abbiano scelto di supportare Trump, che fa notoriamente presa sulla loro insofferenza nei confronti delle istituzioni, percepite come troppo distanti dal loro mondo.
Neppure ci si dovrebbe sorprendere se è ormai idea comune che chi abita queste zone sia automaticamente tacciabile di negazionismo climatico, un’accusa non sempre giustificabile, e che oggi non regge più. Perché anche l’America rurale ha i suoi strumenti, le sue idee e, comprensibilmente, un proprio modo di vedere il mondo, che difficilmente può essere lo stesso di chi è nato e cresciuto in città.
Nel 2017, a un anno dall’elezione dell’ex Presidente Trump, un’analisi condotta da ricercatori dell’università di Yale e della George Mason University, ha rilevato che il 49% dei suoi elettori era convinto che il cambiamento climatico fosse un fenomeno reale ed era favorevole a sistemi di regolamentazione dell’inquinamento atmosferico. Non è un mistero che le roccaforti repubblicane siano proprio nell’America rurale – soprattutto nel Midwest – e che Trump abbia sempre respinto le prove degli effetti deleteri della crisi climatica; eppure, questi dati ci portano su un’altra strada.
Si tratta – è necessario sottolinearlo – di domande generiche, corrette dal punto di vista metodologico se si considera primariamente l’obiettivo della ricerca, ma che non colgono appieno il rapporto delle popolazioni rurali con il cambiamento climatico; piuttosto cercano di comprendere se vi sia una certa polarizzazione ideologica che attraversa il Paese a stelle e strisce sul tema della crisi climatica. Poiché non danno conto della complessità di questo mondo costantemente stigmatizzato, lontano dalla velocità delle grandi metropoli e ingiustamente immobilizzato in una narrazione che ne coglie solo gli aspetti superficiali, finiscono per darne un’immagine troppo statica.
L’altra America rurale
Eppure, c’è un’America rurale che si incontra, dialoga e affronta i problemi legati alla crisi climatica fuori dagli schermi televisivi, da Instagram o Twitter e tantomeno in grandi forum nazionali. Non usa necessariamente l’espressione “cambiamento climatico”, perché sa che non sempre le parole contano laddove i fatti hanno la meglio. Bensì nell’impegno locale trova un modo per preservare quel che resta di ecosistemi ormai vinti, ma che vogliono e devono sopravvivere.
Ne è un esempio Anna Claussen, cresciuta in una fattoria a venti miglia da Benson, capoluogo della contea di Swift, nel Minnesota occidentale. La sua è una storia di resistenza e devozione ma, soprattutto, di grande lungimiranza. Dopo essersi laureata in architettura e specializzata in paesaggistica, si è dedicata per circa un decennio alla difesa dei diritti dei lavoratori agricoli, lavorando per l’Institute for Agriculture and Trade Policy (un’organizzazione no-profit) come Direttrice delle strategie rurali, focalizzandosi su strategie di adattamento eque e sostenibili per i sistemi agricoli, a livello nazionale e globale.
Nel 2018, ha deciso di fondare Voices for Rural Resilience, organizzazione volta a creare pratiche partecipative dal basso nelle aree rurali, coinvolgendo la cittadinanza nella definizione di strategie e piani inclusivi che tengano conto delle specificità territoriali e diano effettivamente ascolto a lavoratori e cittadini. Il tutto, nel pieno rispetto degli obiettivi di tutela dell’ambiente e spronando i cittadini ad avere una coscienza critica verso la crisi climatica che stiamo affrontando.
Prima ancora, nel 2014, e grazie alla collaborazione tra l’Institute for Agriculture and Trade Policy e il Jefferson Center, è nato Rural Climate Dialogue, progetto che ha coinvolto diverse città del Minnesota. Il Jefferson Center, organizzazione civile con sede a Minneapolis, è stata fondata nel 1974 dallo scienziato politico Ned Crosby, padre del metodo Citizens Jury (traducibile con giuria dei cittadini) ed è stata la prima organizzazione ad aver ospitato e sperimentato il modello da lui ideato. Quarant’anni dopo, a Morris, una piccola cittadina di 5.000 abitanti a ovest di Minneapolis, si è svolto il primo dei dialoghi avviati a livello statale attraverso il Rural Climate Dialogue per incoraggiare un dibattito collettivo sulle conseguenze del cambiamento climatico sul territorio; in poche parole, un modo per dotare i cittadini di una voce propria.
Il risultato? A Morris sono state avviate successive collaborazioni tra la società civile e il governo locale che hanno portato in particolare all’adozione di un accordo con la cittadina tedesca di Saerback (con cui Morris è gemellata), volto ad individuare soluzioni energetiche alternative per ridurre le emissioni climalteranti e favorire lo sviluppo economico della città. La Contea di Stevens, di cui Morris è capoluogo, ha integrato il concetto di resilienza climatica nei suoi piani di emergenza, prima ancora di molte altre realtà nel resto del Paese.
Non a caso, il gruppo di lavoro organizzato dall’Università del Minnesota-Morris che si è dedicato alle iniziative successive, nel 2017 si è aggiudicato il Minnesota Climate Adaption Award, trasformando la propria esperienza in un modello replicabile, che porta il nome della città. Il “modello Morris” si è posto ormai tre grandi obiettivi: produrre l’80% dell’energia consumata nella contea di Stevens da fonti rinnovabili entro il 2030, ridurre il consumo energetico del 30% entro lo stesso anno, e chiudere ogni discarica entro il 2025.
Conoscere queste esperienze è la chiave di volta per capire un mondo sistematicamente condannato alla disuguaglianza in un sistema, quello degli Stati Uniti, dove troppo spesso l’ideologia offusca le menti e la collaborazione non sempre trova spazio. Eppure, il modello Morris dimostra che un’altra via è praticabile per superare l’isolamento e trovare un fine comune: per guarire il pianeta che per secoli ci ha dato la vita, partendo da ciascuno, secondo le proprie capacità.
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