Fuori dalla mia proprietà: la Tav texana non partirà?
Dopo decenni di promesse non mantenute, l'avveniristica alta velocità in Texas rimane un'incognita perlopiù divisiva e che forse non vedrà mai la luce.
Gente, voi ancora non lo sapete, ma state per guidare l’intera nazione in un’era totalmente nuova per quanto riguarda i trasporti.
Così le parole dell’allora vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden a Dallas nel 2015, nel portare l’appoggio dell’Amministrazione Obama al progetto della nuova linea ferroviaria ad alta velocità destinata a collegare Dallas e Houston (che distano fra loro quasi quanto Milano e Roma) in 90 minuti, meno della metà del tempo che ci si impiega in auto.
Sulla carta quell’idea sembrava promettere bene. Negli USA i progetti di alta velocità ferroviaria incontrano solitamente forti resistenze che, contrariamente a quanto accaduto in Italia per la TAV, riguardano non tanto l'impatto ambientale dell'opera, quanto piuttosto i costi a carico del contribuente. Per questo quella parte dell’opinione pubblica che vede di cattivo occhio questi progetti, ovviamente più in sintonia con il Partito Repubblicano, ha buon gioco a menzionare, a riprova delle proprie ragioni, lo stato pietoso dell’altro ambizioso progetto di alta velocità ferroviaria dell’Era Obama, quello californiano, ideato nel 2008 per un costo già in partenza faraonico di oltre 45 miliardi di dollari, e gradualmente lievitato fino ad oltre 68 miliardi, quasi tutti a carico delle casse statali.
Mentre il tracciato, che in origine andava da Los Angeles a San Francisco in poco più di due ore e mezza, si è ridotto al ben più modesto collegamento fra San Francisco e Bakersfield, per ora ufficialmente è ancora in cantiere, ma richiederà una decida d’anni prima di vedere la luce, ammesso che mai ci arrivi.
In Texas no: lì, al contrario, si tratterebbe di un’operazione senza alcun costo a carico dei contribuenti: la società “Texas Central” appositamente costituita è infatti totalmente privata e per coprire l’investimento di circa 20 miliardi conterebbe principalmente su un finanziamento giapponese, in parte addirittura dal governo di Tokyo, come sarebbe il treno stesso: si tratterebbe in pratica di “importare” in Texas il mitico Shinkansen, il “treno-proiettile" che collega Tokio e Osaka. Peraltro il costruttore dell’infrastruttura sarebbe invece italiano. L’appalto se l’è infatti aggiudicato la milanese Webuild, già Impregilo, mentre il gestore sarebbe poi la spagnola Renfe.
Eppure, nonostante il fatto che in questo caso gli investimenti siano tutti privati e non sia previsto un peso sulle tasche dei contribuenti, dieci anni dopo l’annuncio del progetto e sette anni dopo l’endorsement di Biden, quella promessa è ancora lettera morta. La costruzione non ha ancora avuto inizio, l’acquisizione dei terreni (che possono anche essere espropriati) va a rilento, e non ci sono notizie di miglioramenti, anzi si rincorrono voci di difficoltà economiche. Nell’opinione pubblica texana più che l’impazienza cresce l’ostilità, tanto che il governatore Greg Abbott, subito dopo aver dato il suo appoggio al progetto con una lettera al governo giapponese, si affrettò a rimangiarsi tutto dicendo di essere stato fuorviato da «informazioni incomplete».
L’impopolarità di questo progetto presso una parte dell’opinione pubblica texana va compresa considerando due ordini di ragioni, che vengono per così dire a sommarsi. La prima è tendenzialmente ideologica: il treno viene visto come emblema di un approccio “collettivo” alla mobilità e quindi come soluzione di tipo “socialista” contrapposta a quella “individualista” dell’automobile; la pianificazione di nuove linee ferroviarie implica una certa dose di “ingegneria sociale” spingendo di fatto la gente a optare maggiormente per la scelta di vivere in grandi centri urbani collegati dai nuovi treni, e meno nella provincia con le sue small town più o meno campagnole e i suoi exurbs, i centri residenziali extraurbani che tendono ad essere collegati più che altro da strade e autostrade.
A questo si somma il risentimento per gli espropri dei terreni necessari per realizzare l’opera, che avvengono ai danni di proprietari residenti in quel Texas extraurbano che, per l’appunto, beneficerebbe poi ben poco del servizio. Ecco, quindi che l’opera viene percepita come divisiva: ben vista da chi vive nelle due metropoli che la nuova ferrovia andrebbe a collegare, entrambe a guida di sindaci Democratici e coincidentalmente afroamericani, ma invisa nella provincia trumpiana che non ha alcuna voglia di farsi espropriare la terra per fare un favore a quei cittadini.
Visto così, non basta che si possa fare senza sperperare denaro pubblico: si andrebbe comunque a infliggere odiosi espropri non per realizzare qualcosa di realmente utile, bensì per inseguire il sogno vanaglorioso di poter competere con i Paesi europei e asiatici nella leadership in una tecnologia del tutto superata «come se si ambisse a essere leader mondiali nel campo delle macchine da scrivere elettriche, o dei telefoni a disco, o delle locomotive a vapore» ha scritto ad aprile Randal O’Toole, del libertario Cato Institute.
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