"Al Dio Sconosciuto" di John Steinbeck
Una terra promessa, un nuovo messia, un romanzo profetico: un capolavoro da riscoprire
Ladies and gentlemen,
welcome aboard the Jefferson Bookplane, la rubrica di Jefferson sulla letteratura americana (ma restiamo umili).
Succede, talvolta, di terminare la lettura di un romanzo e fermarsi qualche giorno a riflettere sul suo significato più profondo, di doverlo lasciare sedimentare un po’. Non è stato così con “Al dio sconosciuto” di John Steinbeck. In questo caso, invece, ogni singola pagina mi ha fatto percepire la grandezza del messaggio di questa storia, mi ha catturata, rendendomi incredibilmente certa di avere la fortuna di leggere una delle opere più misteriose e profetiche del XX secolo.
Alla ricerca della terra promessa
Il protagonista di questa storia, ambientata negli anni Trenta, è Joseph Wayne, un giovane e ambizioso agricoltore del Vermont che decide di lasciare la fattoria paterna e i compiti del figlio devoto, per andare in cerca del suo posto nel mondo e, soprattutto, per trovare una terra che fosse tutta sua. Attraversa, quindi, l’America verso il famoso West per stabilirsi in una vallata verdissima e fertile della California. È qui che costruisce la sua casa, all’ombra di una grande quercia, raggiunto poco tempo dopo dai suoi fratelli per iniziare insieme una nuova vita. Quello che, probabilmente, non si aspetta è di provare, fin dai primissimi istanti, un legame intenso, quasi viscerale con quel luogo inesplorato, quella sua nuova terra. Una forza sconosciuta, un richiamo potentissimo che lo fa sentire in dovere di proteggerla ad ogni costo. Fino a diventare egli stesso parte di quella natura selvaggia e inviolabile. Soltanto nella Natura, infatti, Joseph riconosce il Sacro.
“Anche a te, Joseph, questo giorno è sembrato pieno di significati nascosti, non completamente comprensibili?”
P. 131
Un romanzo profetico
Scritto nel 1933 e tradotto da Eugenio Montale, “Al dio sconosciuto” è il terzo romanzo di Steinbeck, prende il titolo dal discorso di San Paolo all’Areopago di Atene e, molto probabilmente, è tra le sue opere meno conosciute, pur rappresentando in pieno la visione del mondo di questo scrittore straordinario, vincitore del Premio Pulitzer per “Furore” nel 1940 e poi del Nobel nel 1962.
Attraverso la vita di Joseph Wayne, Steinbeck descrive in modo magistrale quello che si può definire come una sorta di panteismo naturale: Dio è in tutte le cose. Ecco spiegato il rapporto tra il protagonista e la Terra, racchiuso in una dimensione spirituale e solenne ma mai religiosa, piuttosto pagana. La Terra intesa come Grande Madre che tutto genera e che uccide a suo piacimento, il legame tra l’uomo e tutto ciò che di illogico la Natura compenetra.
Da qui, quello sforzo incessante di comprendere l’inaccessibile, l’intangibile a cui siamo condannati dalla notte dei tempi: perché un momento prima la terra è feconda e quello dopo viene improvvisamente ridotta alla carestia, devastata da una siccità dai tratti apocalittici? L’interpretazione dei segnali della natura è sempre più estenuante e, per tutta risposta, sembra proprio che il dio sconosciuto non sia disposto a svelare il suo vero volto. Né ora né mai.
A questo universo solenne e impenetrabile è legata indissolubilmente l’esistenza dell’agricoltore che, con il passare del tempo, assume le sembianze di un profeta agli occhi dell’intera popolazione della valle. Ma questo suo sentire, lo scorrere dentro di sé del potere ancestrale della natura lo rende saggio, folle o maledetto?
(…) Joseph ha forza al di là di ogni possibilità di disfatta, ha la calma delle montagne, e il suo sentimento è selvaggio, crudele e acuto come la folgore, e altrettanto irragionevole, per quanto io possa vedere o sapere. Quando ne sarete lontana proverete a pensare a lui e vedrete quello che io intendo. La sua figura diverrà immensa, tanto da sorpassare le montagne e la sua forza sarà simile all’irresistibile impeto del vento.
P.95-96
Effetti collaterali
Siamo davanti a un’opera meravigliosamente complessa, dai molteplici significati, dal sapore primitivistico. Steinbeck aveva certamente un dono: saper descrivere la bellezza e la ferocia dell’universo che ci circonda ma anche di quello più remoto e nascosto. Quello che è ai primordi delle nostre vite, quello che sentiamo ribollire nelle vene, quello che fiutiamo nel vento in certi (rarissimi) momenti di connessione con gli elementi naturali, con il nostro io più animalesco. In tutto il romanzo, sembra che l’autore ponga una serie di quesiti: “Quando abbiamo perso la capacità di ascoltare? Quando abbiamo smesso di interrogarci sulla potenza della Natura, sui suoi segreti più profondi e sulla sua sacralità?”.
Pagina dopo pagina, non si può che rimanere stregati dalla densità delle atmosfere descritte, dalla bellezza struggente dei paesaggi, dall’impenetrabilità del protagonista, un messia insolito, il cui sguardo racchiude lo sguardo di tutti gli uomini. Si resta travolti dalla ferocia, dalla paura, dalla meraviglia di una vita a contatto con la Terra, avvicinandosi a un’esistenza che dipende interamente dal suo ritmo e dalla sua volontà. A noi uomini non resta che rispettarla e seguirne il fluire perpetuo.
Lo spazio s’apriva a un potere ch’era al di là del suo controllo. Ella stava sull’orlo di un grande stagno nero profondo e vedeva enormi, pallidi pesci attraversarne misteriosamente la profondità.
P.92
Leggerlo perché
Oltre che per lo stile inconfondibile e indimenticabile di un autore che è anche uno de massimi esponenti della letteratura americana, “Al dio sconosciuto” stupisce in modo particolare per la sua capacità di fare dimenticare al lettore tutto ciò che lo circonda. Siamo noi e la storia della famiglia Wayne. Leggere di quest’uomo e della difficoltà di avere a che fare ogni giorno con la sua terra selvaggia riesce a trasportarci in una dimensione altra, potente, magica e insolita.
Questo romanzo mi ha travolta, facendomi intravedere un altro modo di esistere su questo pianeta, più vero, osservando le cose da un’altra prospettiva, più arcaica e cruenta, talvolta, ma che appare anche più rispettosa e giusta nei confronti dello spazio e delle risorse che utilizziamo (male) quotidianamente. Sono rimasta incantata dal paganesimo che trasuda questa storia, dall’idea, dimenticata dalla nostra società frenetica e consumistica, che tutto è sacro, tutto è dio. I nostri antenati lo sapevano. Non solo, nel 1933, Steinbeck lancia un monito che sembra diretto proprio a noi: non abbiamo alcun diritto sulla Natura e distruggerne la bellezza si ripercuoterà sempre su noi stessi, nel più violento dei modi.
Forse dovremmo tutti ricordarcelo un po’ più spesso.