#9 Brainstorm – Il voto afroamericano
Abbiamo anticipato l'argomento nel nostro podcast, Magic Minute. Lo approfondiamo nelle opinioni di Emanuele Monaco e Vittoria Costanza Loffi
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson – Lettere sull’America che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
Nello scorso episodio del podcast Magic Minute sull'andamento dei sondaggi e sulle sfide senatoriali, dal titolo Sondaggi e senatori, abbiamo accennato all’importanza del voto afroamericano e alle difficoltà che, secondo i sondaggi, Kamala Harris sta incontrando nell’intercettarlo, in particolare quello maschile.
Si tratta di un segmento di elettorato che ha sempre sostenuto in forze il candidato democratico, tanto che alle scorse midterm (qui e qui i dati del Pew Research Center) il dato è stato il più alto dal 2016 in poi, con gli elettori afroamericani maschi che hanno addirittura aumentato il loro supporto dopo un consistente calo nel 2020, e questo a fronte di un andamento nettamente più lineare del dato femminile.
Considerando che le midterm non sono le presidenziali, Kamala Harris sta investendo molte risorse nel cercare di mobilitare questa importante fetta di elettorato. Tuttavia, il dato maschile sembra essere refrattario agli sforzi profusi. Perché si teme che il voto afroamericano possa non sostenere i Democratici come in passato? E perché c'è questa differenza tra i due generi?
Ecco le opinioni di Emanuele Monaco e Vittoria Costanza Loffi.
«Per alcuni esperti e giornalisti è quasi inspiegabile il gap di genere»
di Vittoria Costanza Loffi
Che Kamala Harris stia sperimentando difficoltà in termini di fidelizzazione e popolarità rispetto all’elettorato afroamericano (specificatamente maschile) rappresenta l’annosa questione di queste settimane, tant’è che per il rush finale della campagna per la presidenza sono tornati in gioco entrambi i coniugi Obama: Barack e Michelle hanno – seppur con modalità differenti – entrambi sollevato il problema dei maschi afroamericani apparentemente non convinti della candidata Democratica.
Da un lato, l’ex Presidente ha usato una schiettezza non da tutti apprezzata, insinuando che il problema principale sia proprio rappresentato da un forte sessismo interiorizzato nella componente maschile nera; dall’altro, Michelle si è appellata agli uomini adottando uno stile più generico, ma sottolineando come queste elezioni siano fondamentali per la sopravvivenza di molte donne negli Stati Uniti.
Ed è così, perché per quanto, ad esempio, il rovesciamento di Roe v. Wade dimostri ogni giorno di costituire un pericolo tout court per le donne americane, da sempre la giustizia riproduttiva si presenta come un campo che vede più a rischio di violenza e violazione dei propri diritti le donne nere che vivono negli USA.
Secondo alcuni studi le donne nere si classificherebbero addirittura come il blocco elettorale più fedele di tutti al Partito Democratico da almeno due generazioni, dimostrando una coesione ben radicata e lungamente antecedente l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump. È anche vero che le donne nere sono forse tra le componenti della popolazione che più conoscono gli effetti di una politica e cultura intrise di valori maschilisti e stereotipati: non sono così tanti, dopotutto, gli anni che ci separano dai tempi della rivoluzione nera degli anni Sessanta e Settanta, animata da retoriche machiste capaci di identificare la donna nel solo ruolo di madre con il compito, tramite la riproduzione, di ampliare le fila di “combattenti” neri.
Una delle papabili motivazioni apparentemente nascoste dietro questa generica de-fidelizzazione dell’elettorato afroamericano punterebbe allo scontento causato dalla presidenza Biden (a cui Harris viene naturalmente associata) e per cui non si sarebbe fatto abbastanza per risolvere i problemi che più colpiscono questa parte della popolazione. Tuttavia, sostenerlo significherebbe insinuare in qualche modo che le donne nere non percepiscono i problemi legati alle politiche sociali, alla giustizia, all’economia o all’housing come reali o così dirimenti – quando invece, molto spesso, la dimensione del genere non fa che acuire le conseguenze di determinate politiche che ricadono a catena anche su di loro. Per alcuni esperti e giornalisti è quasi inspiegabile il gap di genere, se non ricorrendo a osservazioni quasi tautologiche, per cui per le donne nere votare sembra essere diventato un atto di collettivismo imprescindibile.
Quando però si parla di voto afroamericano si deve imparare, a prescindere dal genere, a tenere in considerazione due dati fondamentali: del primo, ha provato a parlarcene nientemeno che la Giudice della Corte Suprema Ketanji Brown Jackson in occasione del caso Merrill v. Milligan. Non vi è aspetto della storia, cultura e politica americana che possa essere considerato in qualche modo colorblind: ogni tassello si relaziona con il costrutto della razza, anche la creazione dei differenti distretti elettorali in modo tale da influenzare (o rendere più complesso) il voto della componente afroamericana.
Un altro punto da tenere in considerazione riguarda proprio stime, sondaggi e i bias con cui questi si confrontano: come ha scritto il Guardian qualche giorno fa, se qualcuno che ha una profonda e vasta esperienza con gli afroamericani guardasse ai dati dei sondaggi e come vengono raccontati dalle testate statunitensi noterebbe in maniera evidente i bias di analisi e gli errori commessi per l’apparente solo piacere di narrare una Harris in difficoltà.
«Ognuno sembra avere una risposta più o meno banale basata unicamente sui dati di sondaggi pre-elettorali»
di Emanuele Monaco
Ci risiamo con il voto afroamericano. Siamo in un frangente storico di forte cambiamento culturale negli Stati Uniti, in cui molti nodi della polarizzazione perenne e delle divisioni razziali e di classe stanno venendo al pettine in modo surreale, e niente attira le ansie, le speranze, la trepidazione di politici e analisti come i sondaggi sulle intenzioni elettorali dei cittadini afroamericani. Il cosiddetto racial realignment è qualcosa di cui si parla da anni, prima di fronte alla perdita di consenso del Partito Democratico tra i gruppi ispano-americani (che gli è costato la Florida per almeno una generazione), ora con i numeri altalenanti del consenso afroamericano negli Stati chiave, prima nel 2016, un po’ meno nel 2020 e di nuovo ora. La storia è nota: il Partito Democratico, informato anche da una parte di accademia annebbiata dal determinismo e fatalismo di certe critical theories, contava su una coalizione di minoranze razziali descritte come strutturalmente oppresse che compensasse il calo di consenso progressista nella maggioranza bianca, rendendo inevitabile l’eliminazione del vantaggio che il Partito Repubblicano gode da qualche decennio nell'Electoral College (detto in parole povere, rendendo il Texas uno swing state e la Florida solid blue).
Questo non è avvenuto per tanti motivi, primariamente perché le dinamiche di classe, istruzione e religione hanno dimostrato di influenzare il voto di ampi gruppi di persone non bianche molto più che quelle razziali. Se però c'è un gruppo sul quale il Partito Democratico fa più affidamento di altri, beh quello sono gli afroamericani, soprattutto le donne. E se questo viene meno, o è percepito come riluttante, ecco che la coalizione democratica va in crisi.
C'è dopotutto motivo di preoccupazione per Harris: le elezioni di settimana prossima sono descritte dai sondaggi come talmente sul filo che probabilmente saranno decise nelle contee urbane e suburbane di Atlanta, Detroit, Milwaukee, Philadelphia e quelle lungo l'Interstate 85 in North Carolina. Cos'hanno queste contee in comune? Avete indovinato, una forte presenza di elettori afroamericani. Stando a casa nel 2016 divennero parte della matematica della sconfitta di Clinton, presentandosi in massa regalarono ai Democratici Casa Bianca e maggioranza al Senato nel 2020: tutte elezioni decise in termini di poche migliaia, o decine di migliaia di voti.
Posto che la sua principale preoccupazione dovrebbe essere quindi l’affluenza, dai sondaggi al momento disponibili sembra che Harris non riesca a raggiungere i livelli di consenso di Biden soprattutto tra gli uomini afroamericani, ma neanche quelli di Clinton. Cosa sta succedendo? Siamo di fronte a uno storico riallineamento razziale? È semplicemente sessismo? Le proposte di Harris, pur popolari, non convincono abbastanza? Ognuno sembra avere una risposta più o meno banale basata unicamente sui dati di sondaggi pre-elettorali. La verità è che non lo sappiamo, e forse non lo sapremo neanche la settimana prossima, se non dopo anni di studi e ricerche, come quelle che hanno smontato il mito di Trump come presidente della classe lavoratrice bianca tanto popolare in Italia.
Per fare un’ipotesi, probabilmente un misto di ragioni sta allontanando una parte minoritaria di elettori, soprattutto giovani uomini afroamericani, dalla dialettica politica mainstream, rendendo difficile costruire rapporti di fedeltà storica che invece valevano per i loro genitori. La rabbia e la disaffezione, che emergono dalle interviste, di fronte a un’economia in crescita ma che permette però sempre meno riscatto sociale spiegherebbero la presa di un messaggio tanto violento e radicale quanto semplice come quello di Trump. Pur rimanendo estremamente minoritario (parliamo del 15 per cento) è un record di consenso che potrebbe essere abbastanza per costare a Harris la Casa Bianca.
Volendo proprio costruirci sopra una grande narrazione, una tentazione troppo grande per uno storico, si potrebbe assistere davvero, soprattutto se quel 15 per cento cresce, a una rivoluzione politica come non si vede dalla Ricostruzione post-guerra civile e dal cambiamento radicale avvenuto negli anni Sessanta. Questa volta il nativismo e nazionalismo cristiano MAGA rischiano di diventare un fenomeno multirazziale, cambiando per decenni a venire la storia del Paese, aprendo forse a una nuova era del sistema partitico americano.