#8 Brainstorm – Sui sondaggi (e i sondaggisti)
Ha senso affidarsi ai sondaggi per le imminenti elezioni? Ecco le opinioni di Francesco Danieli, Davide Cucchi, Antonio Junior Luchini e Giacomo Stiffan
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson – Lettere sull’America che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
I sondaggi sono croce e delizia per i political junkie, eppure in questa tornata elettorale sono di ben poco aiuto. Tra un’America sempre meno propensa a farsi sondare, finanziatori poco trasparenti e giornali che preferiscono rimanere neutri pur di non sbagliare, il dubbio che molti dei sondaggi che vediamo non siano in grado di leggere il Paese reale si fa sempre più pesante.
Ecco il parere di Francesco Danieli, Davide Cucchi, Antonio Junior Luchini e Giacomo Stiffan.
«Ogni sondaggio favorevole ai propri candidati diventa un’occasione per incitare gli indecisi a salire sul carro del futuro vincitore»
di Francesco Danieli
I sondaggi non sono una sfera di cristallo nella quale si può leggere il futuro, ma uno screenshot della situazione al momento in cui il sondaggio viene fatto. Più le elezioni si avvicinano, più i sondaggi dovrebbero avvicinarsi al risultato finale, salvo sorprese dell’ultimo minuto. Nel frattempo, ci possono offrire due cose: una possibile tendenza (vista, per esempio, nella crescita delle preferenze per Harris man mano che la candidata si faceva conoscere dopo il ritiro di Biden) e le reazioni a determinati eventi, come le due convention, gli attentati a Trump o i dibattiti tra i candidati.
Detto ciò, quanto possiamo fidarci? A parer mio non molto, per varie ragioni. Nel corso delle ultime elezioni sono emersi diversi problemi nelle modalità con cui i sondaggi vengono condotti, che persistono ancora oggi. Ci sono meno persone che rispondono ai sondaggisti, il che richiede una maggiore varietà di metodi per raggiungerle (telefono, e-mail, internet…) e causa una minore accuratezza nei risultati, perché alcuni segmenti della popolazione potrebbero essere sottostimati. Per esempio, nelle elezioni del 2016 e del 2020 gli elettori di Trump non avevano problemi ad ammettere di votare per il tycoon, ma per la loro scarsa fiducia nelle istituzioni tendevano a non partecipare ai sondaggi. Inoltre, i sondaggi sono oggi uno strumento di campagna elettorale. Ogni sondaggio favorevole ai propri candidati diventa un’occasione per incitare gli indecisi a salire sul carro del futuro vincitore e creare una narrazione positiva. Questo significa che tra gli istituti che svolgono i sondaggi potrebbe esserci un interesse, spinto dai propri finanziatori, a rilasciare solo i sondaggi più favorevoli a un certo candidato. Infine, ai giornali stessi conviene raccontare un costante testa a testa tra i due candidati, sia perché offre una storia molto più interessante rispetto a una vittoria scontata, sia perché permette loro di non sbilanciarsi e di evitare errori troppo ampi all’uscita dei risultati.
«Mai come oggi gli elettori non sono disposti a schierarsi pubblicamente per uno dei due candidati alla Casa Bianca»
di Davide Cucchi
I numeri degli ultimi due mesi tratteggiano sempre la stessa situazione: battaglia all’ultimo voto, quindi incertezza.
I sondaggi sono uno dei motivi che hanno spinto i Democratici a sottrarre Biden dalla corsa presidenziale. Quando i dati vedevano Trump in vantaggio anche nel Minnesota, gli animi si erano parecchio surriscaldati. Oggi, i sondaggi fotografano un’elezione equilibrata come mai prima d’ora. Incertezza che aggiunge sicuramente tensione, ma anche passione per chi segue la politica americana. Le elezioni statunitensi sono state spesso chiuse prima dell’election day, mentre il 5 novembre sarà comunque una sorpresa vedere esultare Harris piuttosto che Trump.
Mai come oggi gli elettori non sono disposti a schierarsi pubblicamente per uno dei due candidati alla Casa Bianca. Da una parte, sostenere Kamala Harris significa approvare il lavoro di Biden (o almeno, così la vede l’opinione pubblica). Dall’altra, c’è il solito Donald Trump, un personaggio che definire divisivo è poco. Gli elettori più moderati o vicini al vecchio GOP non mi sembrano così propensi a sedersi a tavola con i famigliari e dire: «Quest’anno voto Trump». Insomma, due candidati con tanti problemi non solo non scaldano i cuori, ma rendono i cittadini più cauti a esprimersi, anche nei sondaggi. Risultato? Sanno già chi voteranno nel segreto della cabina elettorale, ma dirlo ad alta voce è tutta un’altra storia.
In chiusura, una menzione alla tipologia di sondaggi. Ci sono quelli di parte che indicano quasi a tavolino il proprio candidato avanti di 1-2 punti, così l’elettorato è entusiasta, ma non troppo da sentire la vittoria già in tasca e non andare a votare. C’è chi vede Trump avanti nel voto popolare ma sconfitto nel collegio elettorale (può succedere, certo, ma è altamente improbabile). Insomma, preso atto che i sondaggi ci consegnano una situazione di stallo, non resta che aspettare comodi la sera delle elezioni. Scopriremo insieme chi sarà il 47° presidente degli Stati Uniti d’America.
«Se il potere predittivo della WA Primary regge, questo indicherebbe una vittoria di Harris»
di Antonio Junior Luchini
Come di consueto, ogni nuova tornata elettorale statunitense coincide con il sempre più imponente carosello di sondaggi, modelli statistici e rating determinati da istituti prestigiosi come Siena College e Monmouth, ma anche da uno stuolo di sondaggisti “partigiani” dalla qualità altalenante.
Al netto del notevole impegno infuso dai sondaggisti per assicurare una raccolta e una campionatura rigorosa dei dati, i sondaggi rimangono a mio parere uno strumento difettoso. Ancor più nel caso di appuntamenti elettorali in un clima politico sempre più polarizzato.
Le alternative plausibili (o almeno parzialmente tali) ai sondaggi rimangono poche. È sicuramente suggestivo il modello proposto dallo storico Alan Lichtman, che sostiene che l'eventuale inquilino della Casa Bianca venga determinato da una serie di fattori poco relativi alla campagna elettorale in sé. Nonostante una supposta serie di successi “profetici”, Lichtman ha tanti critici. Non sono del tutto convinto della sua metodologia, ma probabilmente ha più polso del clima elettorale di tanti altri opinionisti banali.
Non ci rimane che guardare quindi alle elezioni speciali tenute poco prima di quelle presidenziali, come la jungle primary dello Stato del Washington, dalle capacità predittive quasi soprannaturali: i democratici andarono malissimo nella parte rurale dello stato ad agosto nel 2016, e discretamente meglio nel 2020. A questo giro, hanno migliorato di nuovo il margine. Se il potere predittivo della WA Primary regge, questo indicherebbe una vittoria di Harris negli swing States del Midwest, solo un po’ meno risicata di quella bideniana del 2020.
A ogni modo, non sono elezioni per persone ansiose, questo è certo.
«I sondaggi possono essere influenzati dai sondaggisti, ma a loro volta i sondaggisti possono essere influenzati dai loro finanziatori»
di Giacomo Stiffan
La statistica non è un’opinione, su questo non ci piove. Tuttavia, i sondaggi sono affidabili tanto quanto il campione sui quali si basano e, come hanno già spiegato i colleghi prima di me, mai come in queste elezioni i campioni sono sporcati da fenomeni che di statistico hanno ben poco.
Del fatto che sempre meno americani siano propensi a rispondere si è già parlato. Vorrei quindi mettere sotto la lente d’ingrandimento un aspetto più subdolo e spesso ignorato anche dalla stampa europea: i sondaggi possono essere influenzati dai sondaggisti, ma a loro volta i sondaggisti possono essere influenzati dai loro finanziatori.
L’uso dei sondaggi come arma politica è vecchia quanto i sondaggi stessi, ma raramente si è vista una tendenza in questo senso così intensa. Anche sondaggisti celebri per la loro accuratezza sono finiti per far alzare più di un sopracciglio: pensiamo ad esempio a Nate Silver, ex mente dietro al sito fivethirtyeight, celebre per il suo algoritmo di aggregazione dei sondaggi. È e rimane un grandissimo tecnico ed esperto del suo settore e vale sempre la pena leggerlo, ci mancherebbe altro, ma le sue interpretazioni dei dati vanno pesate con cautela. Non si può infatti non considerare che da quanto ha lasciato fivethirtyeight i cordoni della sua borsa li tiene Peter Thiel, miliardario della Silicon Valley e già finanziatore di JD Vance. È un dato che non può e non deve essere ignorato quando si pesano le sue opinioni, cosa che molti al di qua dell’oceano sembrano non calcolare, consapevolmente o meno.
Certo, magari questo non inficia l’onestà intellettuale di Silver. È giusto dargli il beneficio del dubbio. Tuttavia, il principio di prudenza non deve mai venire meno: le probabilità non giocano a favore di un Peter Thiel che, mentre butta milioni e milioni di dollari e tonnellate di peso reputazionale su Vance e Trump, poi finanzia Silver senza influire in alcun modo.
È difficile immaginare che chi gioca nella squadra del 6 gennaio lo faccia con fair play. È semplice buonsenso.