#6 Brainstorm – Il dibattito Trump-Harris, seconda parte
Tutto si può dire tranne che sia stato un confronto noioso. Ecco i punti di vista di Emanuele Monaco e Stefano Pasquali
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson – Lettere sull’America che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
Eccoci con la seconda parte dedicata al confronto tra Harris e Trump, con le opinioni di Emanuele Monaco e Stefano Pasquali.
Trovate la prima parte qui.
«Harris ha capito che i dibattiti sono solo buona o cattiva tv»
di Emanuele Monaco
I dibattiti presidenziali non sono politica: non riguardano programmi, piattaforme, partiti, elettorati. Sono teatro, puro e semplice, uno dei motivi per cui funzionano meglio negli Stati Uniti mentre sono una noia mortale da questo lato dell’Atlantico. La persona che partecipa a un tale show di retorica accetta di essere esposta, esaminata, aperta al rischio che qualsiasi cosa fuori posto dica la faccia ricordare per il motivo sbagliato o, peggio, la faccia dimenticare. Il dibattito testa i nervi e la capacità di reggere alla pressione, oltre a quella di leggere l’avversario, la creatività nell’improvvisare e scovare il momento opportuno in cui infilare una battuta memorabile.
Solo con questo in mente si può capire perché una candidata come Harris, che si è rifiutata di rispondere a tante domande, ha detto quello che voleva a prescindere dal tema e ha speso buona parte del suo tempo a stuzzicare l'avversario per sbilanciarlo, sia considerata la vincitrice del dibattito. Con un passato da procuratrice, ha ignorato i moderatori e ha messo sulla difensiva Donald Trump, che evidentemente si aspettava tutto un altro dibattito.
Sono andato a rivedermi (e sono sicuro che l’ha fatto anche Harris) i tre dibattiti tra Trump e Clinton del 2016, e comincio a pensare che il giudizio storico su di essi verrà profondamente cambiato alla luce di quanto accaduto la settimana scorsa. I giornali proclamarono Clinton come vincitrice, dopotutto era la più articolata, la più competente, la più consapevole... tuttavia completamente in balia di Trump. Lo stile e il messaggio di quest’ultimo erano puro caos farcito di falsità, ma erano anche semplici e implacabili, ottimi per la tv. Tutti i vantaggi della candidata Democratica furono ritorti contro di lei. La sua esperienza rigirata per dipingerla come incapace, persino i tradimenti di suo marito usati per insulti sessisti. Trump aveva trovato il modo di rovinare l’immagine di Clinton con un messaggio semplice ad uso della sua base, che lei non riuscì a scalfire in diretta tv.
Con Harris non ha funzionato perché lei ha trovato la chiave per umiliare Trump nel suo stesso elemento. Avendo una campagna colpevolmente impreparata alla candidatura della Vicepresidente, il candidato del GOP si è trovato in balia di attacchi personali e punzecchiature studiate apposta per diventare meme virali, è caduto nelle trappole più banali, si è trovato a dire in diretta le cose più assurde. Anche Clinton a tratti era riuscita nel tentativo, ma quello non era l’obiettivo primario della sua performance. Harris è salita sul palco invece con un compito prefissato e l’ha svolto con precisione e furbizia, mettendo in difficoltà l’avversario, facendogli dimenticare quello che il suo staff aveva preparato. Nel 2016, Trump aveva usato il suo attacco principale nei minuti iniziali del primo dibattito, quando sapeva che tutti erano in ascolto: «Sei in politica da trent’anni, perché hai fatto nulla fino ad ora?». L’altro giorno ci è arrivato a malapena negli ultimi minuti. Harris ha vinto perché ha capito quello che Trump stesso aveva colto allora: i dibattiti sono solo buona o cattiva tv. Nient’altro.
«Ancora più che nel 2020, Trump non riesce a veicolare un messaggio elettorale che non sembri appena uscito dagli angoli peggiori della dalla piattaforma precedentemente nota come Twitter»
di Stefano Pasquali
I recenti sondaggi, condotti da una moltitudine di rispettabili e prestigiosi istituti, hanno evidenziato una crescente percentuale di statunitensi a favore di maggiori restrizioni al fenomeno migratorio.
In questo contesto, allora, come può il candidato del Partito Repubblicano perdere – peraltro in maniera netta – un dibattito elettorale largamente centrato sul tema dell’immigrazione? Questa domanda riassume in breve uno dei temi fondamentali da prendere in considerazione quando si analizza e si discute della presente campagna presidenziale: l’incapacità di Donald Trump di essere efficace, dal punto di vista del messaggio, anche sui temi che storicamente dovrebbero essere più affini alla sua proposta politica, che a quella del duo Harris-Walz.
Nel mondo dei social, un’espressione spesso utilizzata è quella di essere «troppo online». Ciò indica la tendenza di una persona a ragionare e definire la propria visione del mondo facendo troppo affidamento su questioni che – al di fuori della bolla social e della polemica del momento – non hanno un grande impatto sul mondo reale.
Sebbene Trump sia da sempre un grande fruitore delle reti sociali, finendo spesso per esserne ossessionato, la sua campagna del 2024 rappresenta un considerevole salto qualitativo sotto questo punto di vista. I discorsi elettorali, infatti, si basano largamente sul framing imposto da nicchie social e da influencer che spesso sono spesso dei veri e propri grifter. Di conseguenza, anche nel caso in cui il tema trattato possa toccare le corde giuste dell’elettorato (ad esempio, il controllo dell’immigrazione), il modo in cui viene trattato non può che far scappare via i segmenti elettorati che i repubblicani dovrebbero rincorrere.
Da questo punto di vista, il caso del dibattito tra Trump e Harris rappresenta un caso quasi paradigmatico. Innervosito dalla sfidante, la quale lo ha intelligentemente punzecchiato sulla mancanza di spettatori ai suoi comizi, l’ex Presidente ha ben presto perso il filo della situazione. Nel momento in cui si doveva parlare di immigrazione, il suo discorso ha parlato esclusivamente della menzogna – nata sul social X – dei migranti haitiani di Springfield (OH) che mangiano gli animali domestici.
Un comportamento di questo tipo ha due effetti, uno sociale e uno elettorale. Dal punto di vista sociale, le dichiarazioni hanno generato una spirale di allarmi bomba e minacce alla comunità haitiana, portando la città di Springfield al centro di una spirale all’apparenza incontrollabile. Dal punto di vista elettorale, invece, concentrarsi su delle falsità rilanciate dai social alienano anche gli elettorali moderati che – in principio – non sarebbero contrari a un approccio più duro alla migrazione. Dato che l’elezione si svolge nelle urne e non nei poll del fu Twitter, la strategia non sembra essere vincente.