#20 Brainstorm - La sconfitta Dem, un anno dopo
Un anno dopo la disfatta del 2024, i democratici cercano una direzione tra pragmatismo e radicalità: ce ne parlano Giacomo Stiffan, Lorenzo Oliva e Matteo Muzio
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
Un anno fa i Democratici – e molti altri in tutto il mondo – brancolavano nel buio in attesa dell’inauguration day di Donald Trump, ancora sotto shock dopo aver perso Casa Bianca ed entrambe le camere del Congresso.
Oggi, un anno dopo, tira un’aria diversa, con vittorie importanti dei rappresentanti Dem alle elezioni locali di poche settimane fa. Di ciò che è successo e di ciò che ci aspetta ce ne parlano Giacomo Stiffan, Matteo Muzio e Lorenzo Oliva.
“Si può battere Trump solo tornando a parlare di ciò che gli americani vivono ogni giorno”
di Giacomo Stiffan
Le elezioni off-year di quest’anno hanno mostrato che i Democratici, esausti dopo la disfatta del 2024, non solo possono ancora vincere, ma possono farlo con forza. Virginia, New Jersey, New York e California hanno offerto al partito un lampo di vitalità che sembrava perduto. I Dem ci sono riusciti con un elettorato riattivato, candidati più incisivi, tanta voglia di rivincita e una parola d’ordine tornata centrale: affordability. In un’America scossa dall’inflazione e dallo shutdown più lungo di sempre, il costo della vita è diventato il minimo comune denominatore di una coalizione che sembrava irrimediabilmente frammentata.
Eppure, dietro il trionfo, resta una domanda che il partito non riesce a eludere: cosa vuole fare da grande questo nuovo Partito Democratico?
Il successo simultaneo di Abigail Spanberger, moderata che ha fatto del pragmatismo la sua arma, e di Zohran Mamdani, socialista democratico che punta a rifondare l’idea stessa di governo cittadino, racconta un partito che vince un po’ dappertutto ma non sa ancora bene il perché. I leader parlano di big tent, ma le tensioni attendono roventi sotto la cenere: Sanders vede in Mamdani il futuro, mentre Jeffries e Schumer esitano persino a rivendicarlo. Sullo sfondo, le primarie del 2026 si preparano a replicare le fratture che i Repubblicani conobbero ai tempi del Tea Party.
La verità è che serve prudenza: il vento favorevole potrebbe durare meno dell’euforia. Trump resta impopolare, ma i Democratici non hanno ancora convinto il Paese che un’alternativa stabile esista davvero. La folla che acclama Mamdani a Manhattan non è la stessa che consegna la Virginia ai moderati, e nessuno sa quale delle due anime saprà parlare agli stati decisivi del 2026 e del 2028.
Per ora, il messaggio vincente sembra uno solo: si può battere Trump solo tornando a parlare di ciò che gli americani vivono ogni giorno. Il resto è una battaglia identitaria: importante, ma secondaria nella mente dell’uomo comune.
“La strategia dei democratici è ormai divenuta obsoleta, poiché risale a un contesto politico che ormai non esiste più”
di Lorenzo Oliva
Il dilemma pratico che oggi si pone di fronte al Partito Democratico è costituito dalla scelta tra una politica pragmatica e moderata da una parte e una strada più radicale e, se vogliamo, appassionata ideologicamente, dall’altra.
Figure come Mamdani, Platner, AOC e Sanders sembrano dominare il dibattito pubblico a sinistra. La ricerca del compromesso pacifico sembra essere ormai una reliquia di un tempo in cui la politica era meno polarizzata, e la destra non era così ideologizzata.
A ben vedere, si potrebbe argomentare che la strategia dei democratici sia ormai divenuta obsoleta, poiché risale a un contesto politico che ormai non esiste più.
Dopo l’avvento della Reaganomics, i democratici hanno perso l’esecutivo per 12 anni. Quello che rimaneva della New Deal Coalition, ovvero di quel consenso politico nato intorno a Franklin D. Roosevelt che prediligeva l’intervento del governo per porre fine alle sperequazioni sociali, aveva ceduto il passo al neoliberismo di Milton Friedman, di cui Margaret Thatcher si era fatta pioniera.
Il successo economico dell’amministrazione Reagan aveva portato a una virata a destra della politica statunitense. Anche dopo la fine della sua presidenza, il mito persisteva: il vice George H. W. Bush ha distrutto elettoralmente Michael Dukakis, democratico che probabilmente doveva la sua sconfitta a posizioni considerate radicali, come la sua contrarietà alla pena di morte.
“È finita l’epoca degli insider di Washington, toccherà a un governatore”
di Matteo Muzio
L’analisi della sconfitta è quasi un genere letterario per le forze progressiste mondiali. Per il Partito Democratico americano c’era già stato il redde rationem del 2016, con lo shock causato dall’inaspettata disfatta alle presidenziali di Hillary Clinton. Colpa dei moderati, si disse, che con il loro anacronistico centrismo decaffeinato avevano fermato la Bernie Revolution. Dal canto loro i membri di detto establishment rispondevano puntando il dito sull’astensionismo di numerosi “Bernie Bro”, mal disposti a sostenere “Hillary la Neoliberale”. Otto anni dopo, con una presidenza Biden alle spalle, iniziata col botto e finita maluccio, ecco che lo schema si riproduce, stavolta con “Biden l’abilitatore del genocidio”. E rieccoci con l’astensionismo, confermato da un recente studio pubblicato da New Republic, come vera causa della sconfitta dei dem. E basta fare un rapido confronto con il voto raccolto nel 2020 per verificarlo. Qual è la ricetta? Non c’è. Si può però approssimare una soluzione: intanto è finita l’epoca degli insider di Washington, toccherà a un governatore. Non è la prima volta che i dem ricorrono a un nome proveniente dalla provincia profonda: è capitato con Jimmy Carter nel 1976, semisconosciuto ex governatore della Georgia e con Bill Clinton, candidato a inizio 1992 con un George H.W. Bush in carica che sembrava imbattibile. Forse le elezioni di midterm cancelleranno, come già nel 2018, le preoccupazioni dei dem e ci restituiranno un Trump in crisi nerissima di consensi. La verità però è che bisogna quadrare il cerchio e unire, sotto un’unica bandiera, queste due grandi famiglie progressiste che spesso si sono guardate in cagnesco. Il populismo economico contro banche e big del Tech, al momento, sembra un’eccellente arma che funziona ovunque dal Massachusetts all’Alabama. E bisogna affrontare un avversario però che non esiterà a utilizzare anche mezzucci sleali. Basta esserne consapevoli. E ricordarsi, anche in tempo di primarie, che la persona da battere, anche con i colpi bassi, è nelle fila repubblicane.



