1932: il trionfo di Roosevelt all’apice della crisi
Il crollo dell'economia americana fece da scenario allo scontro per la Casa Bianca tra Herbert Hoover e il suo avversario democratico. Un'elezione poco combattuta, ma densa di implicazioni storiche.
Pochi Presidenti in carica sono arrivati alla prova delle rielezioni in difficoltà come Herbert Hoover nel 1932. In un Paese ancora sconvolto dal tracollo finanziario del 1929 e nel pieno della più grande crisi economica della sua storia, colui che fino a poco prima prevedeva che l’America fosse vicina «a mettere fine alla povertà» non poteva aver conservato molta credibilità politica[1]. Hoover perse nettamente contro lo sfidante Democratico, l’ex Governatore dello stato di New York Franklin Delano Roosevelt, che salì alla Casa Bianca per quello che fu solo il primo dei suoi quattro mandati.
Le elezioni presidenziali del 1932 non possono essere analizzate senza considerare lo scenario del tutto eccezionale in cui si svolsero. Il crollo della Borsa di New York tra il 24 e il 29 ottobre del 1929 trasportò nel giro di poche ore gli Stati Uniti nel baratro della crisi: le grandi aziende videro i loro titoli precipitare mentre i cittadini, presi dal panico, iniziarono a ritirare i loro capitali dalle banche, causando una penuria di liquidità senza precedenti. L’allora Presidente Repubblicano Hoover, per quanto fosse meno conservatore in materia economica di alcuni suoi predecessori, proveniva comunque da una cultura di lasseiz-faire, in cui la fiducia nell’autoregolazione del libero mercato era pressoché assoluta. Gli interventi per tamponare la crisi furono quindi, almeno nei primi tempi, estremamente limitati.
Hoover fallì soprattutto nel comprendere la portata della stagnazione che seguì il crollo della borsa e che segnò il periodo storico noto come Grande Depressione[2]. Non solo, egli mancò completamente di cogliere lo spirito del Paese in quei giorni, di un popolo che passava da un decennio di progresso senza apparente fine a una crisi che peggiorava ogni giorno e i cui limiti erano imprevedibili. Un distacco che risultò evidente da una serie di dichiarazioni, come quando a fine 1929 sminuì la crisi dichiarando «ancora nessuno è morto di fame» o quando nel maggio 1930 affermò che «il peggio è passato e con uno sforzo continuo potremo recuperare rapidamente»[3]: alla fine dello stesso anno il numero di disoccupati aveva raggiunto gli 8 milioni.
Viste le circostanze, le elezioni presidenziali potevano sembrare una pura e semplice formalità. Per l’opinione comune Hoover avrebbe probabilmente perso contro chiunque: come poteva venire rieletto quando il suo nome era diventato sinonimo di miseria in tutto il Paese? Quando le baraccopoli venivano rinominate Hoovervilles e le tasche vuote Hoover flags[4]?
Ciononostante, il Presidente uscente vinse in scioltezza le primarie Repubblicane, con il partito che probabilmente scelse di non mostrare cenni di incertezza e di non abbandonare il proprio candidato principale. All’opposto dello spettro politico, Roosevelt faticò non poco per ottenere la nomination: fu solo alla quarta votazione che i Democratici elessero a candidato questo avvocato newyorkese, figlio di una facoltosa famiglia del nordest e lontano cugino dell’ex-Presidente Theodore Roosevelt.
In campagna elettorale il candidato dei Democratici adottò una retorica positiva, nel tentativo di ispirare al popolo americano una ritrovata fiducia nel futuro. Roosevelt capì immediatamente la necessità di fare appello alla sfera emotiva dell’elettorato, e lo fece girando il Paese e tenendo più discorsi pubblici possibili, quasi il triplo di quelli del suo sfidante. In quei mesi il futuro trentaduesimo Presidente degli Stati Uniti pose le basi di quello che sarebbe diventato il suo capolavoro politico: il New Deal, un pacchetto di riforme con cui intendeva risollevare gli Stati Uniti dalla Grande Depressione. Roosevelt avanzò un programma senza precedenti di interventi statali in economia e nel mercato del lavoro, con l’obiettivo di sanare il sistema bancario e abbassare la vertiginosa ascesa della disoccupazione. Un progetto politico assolutamente innovativo e considerato eretico da molti teorici del lasseiz-faire, ma che ebbe evidentemente una certa presa su un elettorato provato dalla crisi. Roosevelt vendeva agli americani un futuro di lavoro garantito per milioni di cittadini, di sussidi per gli indigenti e di crescita economica, una prospettiva difficile da rigettare.
La sconfitta di Hoover, sancita dalle elezioni dell’8 novembre, era, come detto, ampiamente preventivabile. Roosevelt ottenne 472 dei 531 grandi elettori disponibili, lasciando al suo avversario la miseria di sei stati, tutti nel nordest. Nel suo discorso inaugurale, il neopresidente prese atto della drammaticità della situazione, ma al contempo invitò a sconfiggere le angosce e a non paralizzarsi: «l’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa».
Questo trionfo aprì una delle stagioni politiche più durature della storia degli Stati Uniti: Roosevelt passerà i dodici anni successivi alla Casa Bianca, diventando il più longevo Presidente americano della storia, riuscirà a implementare e ampliare il New Deal e guiderà il Paese attraverso la Grande Depressione prima, e la Seconda Guerra Mondiale poi. Quella del 1932, in questo senso, fu indubbiamente un’elezione peculiare, dettata da circostanze storiche assolutamente irripetibili, e proiettò gli Stati Uniti in un nuovo periodo storico. Fu soprattutto lo scontro tra due visioni del rapporto tra lo stato e il cittadino: la ricetta rooseveltiana di rafforzare i poteri e le responsabilità del governo federale prevalse su una concezione estremamente diffidente dell’accentramento politico. Il risultato del voto sancì la nascita di un nuovo ordine nazionale, il quale troverà il suo apice al termine della Seconda Guerra Mondiale e che sopravviverà in parte fino alla rivoluzione liberista di Ronald Reagan negli anni Ottanta[5]. Per i cinquant’anni successivi, gli Stati Uniti si svilupparono intorno alle direttrici tracciate da Roosevelt, la cui ascesa al potere sarebbe forse stata impossibile senza la crisi economica e il conseguente tracollo politico dell’ordine precedente.
[1] David M. Kennedy, Freedom from Fear: The American People in Depression and War 1929-1945, New York, Oxford University Press, 1999, p. 22.
[2] Timothy Egan, The Worst Hard Time, New York, Houghton Mifflin Harcourt, 2006, p. 74.
[3] Kennedy, Freedom From Fear, cit., p. 58.
[4] Kennedy, Freedom From Fear, cit., p. 91.
[5] Steve Fraser, Gary Gerstle, The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1989, p. ix.