Jefferson, carteggio n°3: come sta il conservatorismo Usa?
"You will have percieved that the latter [the Gazette of the United States] is a paper of pure Toryism, disseminating the doctrines of monarchy, aristocracy, and the exclusion of the influence of the people". Lettera a Thomas Mann Randolph, 15 maggio 1791 Cosa vuol dire oggi essere conservatori in America?
Buona giornata a tutti i lettori di Jefferson!
Il tema di questo nuovo carteggio è il conservatorismo americano, analizzato in varie sfaccettature: quello che era e potrebbe essere, quello che è attualmente, le battaglie che promuove e quali sono i gruppi estremisti che sono entrati nell'orbita mainstream dopo anni di esclusione totale. Ma vediamo il ricco menu di oggi:
Cominciamo con la mia intervista esclusiva a Margaret Hoover, pronipote del presidente Herbert Hoover, che ci dà la sua rilettura personale della Grande Depressione e del futuro del Partito Repubblicano. Proseguiamo con l'analisi di Eleonora Vasques, giornalista basata a Londra, collaboratrice de Il Fatto Quotidiano, sul significato politico delle scelte di Donald Trump e Boris Johnson per quanto riguarda la gestione della pandemia di Covid19. Poi abbiamo un contributo della nostra Lucia Marchetti: dopo la sentenza della Corte Suprema, qual è lo stato della libertà di scelta sull'aborto in America? Chiudiamo con una nuova rubrica dedicata agli "Op-Ed". La studiosa indipendente Francesca Papasergi dà una visione originale e militante del movimento suprematista bianco.
Buona lettura del nostro carteggio!
Intervista esclusiva a Margaret Hoover: "Il Gop sarà rifondato da donne e comunità Lgbt+"
di Matteo Muzio
I discendenti delle famiglie presidenziali in genere cercano di fare politica, seguendo la scia dell'illustre antenato, ma non solo puntando alla presidenza. Una carica statale, uno scranno al Congresso o una carriera nel business ad alto livello. E in un certo senso,nei suoi primi anni di carriera, questo è la via che ha cercato di percorrere Margaret Hoover, pronipote del presidente Herbert Hoover (nella foto) : lavorando nello staff del presidente George W. Bush e per la sua campagna di rielezione nel 2004 e come vicedirettore finanziaria della campagna fallita di Rudy Giuliani nel 2006/7. Ha lavorato poi come commentatrice su Fox News fino al 2012, dove curava uno spezzone chiamato Culture Warrior insieme a Bill O' Reilly. Dopo è passata alla Cnn, fino a quando, nel 2018, ha rilanciato Firing Line, storico programma ideato dal fondatore della National Review William Buckley, andato in onda dal 1966 al 1999. Da sempre è nel consiglio di amministrazione della Hoover Presidential Library ed è divenuta sempre più critica della presidenza di Donald Trump, preferendo un partito repubblicano più inclusivo, anche a livello di diritti dei gay. Ha dichiarato che il "matrimonio egualitario è un valore conservatore". In questa intervista affronta proprio questo: la memoria del suo avo, ritenuto troppo a lungo l'unico responsabile della Grande Depressione, che si lega alla rinascita del partito repubblicano post-trumpiano, da lei definito il partito del nuovo "individualismo". Vediamo di che si tratta.
Margaret Hoover, in cosa la situazione attuale è diversa da quella del 1929?
Questa volta l'economia è stata chiusa come fosse un rubinetto per un periodo, mentre all'epoca la crisi arrivò in modo inaspettato. Per quasi tutti. Tranne che per qualcuno che non venne ascoltato. Sa di chi si trattava? Di Herbert Hoover.
Cosa intende? Il suo antenato in che modo si comportò in modo diverso da Donald Trump oggi?
Intanto per anni da segretario al commercio aveva messo in guardia il suo predecessore Calvin Coolidge dalla spregiudicata speculazione di Wall Street. E nel 1928 anche il suo avversario democratico Al Smith, per bocca del suo campaign manager John J. Raskob scrisse un articolo che appoggiava le manove in Borsa con un titolo eloquente "Chiunque può diventare ricco". All'epoca poi non si pensava che i presidenti dovessero porre dei freni alla speculazione in borsa, per timore che potessero involontariamente condurre a un panico come quelli avvenuti nel corso del XIX secolo. Ad ogni modo Hoover tentò in tutti i modi di porre un freno, convocando i maggiori dirigenti industriali alla Casa Bianca pregandoli di mantenere inalterati i salari e chiamò i governatori chiedendo loro di avviare un piano di opere pubbliche, sul modello di quanto faceva il governo federale. E in un primo tempo sarebbe stato efficace. A proposito di governatori, fu proprio Franklin Delano Roosevelt, il governatore di New York, a trascurare il suoi doveri di sorveglianza per non disturbare troppo i banchieri del suo Stato. Ad ogni modo, un contrasto stridente con le azioni di Trump.
La retorica del presidente è divisiva e infiammatoria. Pensa che questo possa aver macchiato la carica presidenziale per sempre?
No, niente affatto. La dignità di quell'alto incarico può essere restaurata da chiunque. Nel 1998 i conservatori erano preoccupati dal fatto che la storia extraconiugale di Clinton l'avesse danneggiata irrimediabilmente. Invece i presidenti Bush e Obama hanno portato un alto livello di rispetto e di decoro.
Nel suo libro "American Individualism" vuole applicare la libertà individuale anche nell'ambito delle scelte private in campo sessuale e sociale e che questa può essere la via per cambiare il partito repubblicano. E questa era la sua tesi del 2011. Può ancora essere così nel partito di Trump?
C'è pur sempre una via per farlo, attraverso il cambiamento generazionale, dopo che Trump se ne sarà andato per sempre, nel gennaio 2021 o nel 2024. Ritengo che sia l'unica strada percorribile.
Lei presiede l'American Unity Fund, un comitato d'azione politica (Pac) che ho come obiettivo quello di rendere definitiva a livello costituzionale la protezione della comunità Lgbt+ emendando il Civil Rights Act. Avete degli alleati nel mondo repubblicano?
Sì, undici rappresentanti, tra cui Elise Stefanik, Mark Amodei e David Joyce. Una piccola base di repubblicani la pensa come noi e così anche altre organizzazioni conservatrici come i Log Cabin Republicans.
Politicizzare il Covid19: parallelismi tra Stati Uniti e Regno Unito
di Eleonora Vasques
Sono numerosi i fattori che hanno influenzato la diversa gestione della crisi sanitaria da Covid-19 in ogni paese del mondo in questo 2020. Il contesto sociale, culturale e politico possono in parte spiegare le decisioni prese dai governi (quando ordinare e come regolamentare il lockdown, per fare un esempio). Da questo punto di vista si può vedere come i due governi dei paesi anglosassoni per eccellenza, Regno Unito e Stati Uniti, oltre a presentare un’affinità culturale, storica e politica, hanno mostrato un atteggiamento molto simile nella gestione della pandemia da coronavirus. La causa di questa similitudine risale però alla personalità dei due leader e alle strategie messe in campo per arrivare agli elettori.
Il primo evidente elemento di osservazione si può notare nella personalità ed estetica del primo ministro Boris Johnson e del presidente Donald Trump. Provenienti da ottime famiglie, Johnson e Trump si sono rivelati dei leader carismatici, sfacciati e anche relativamente comici a causa della loro stravagante modo di muoversi e acconciatura. La loro capacità di farsi percepire vicini al popolo con la propria scaltrezza e anche esplicita scorrettezza li ha portati pericolosamente a diventare i capi di stato dei loro rispettivi paesi. Come molti leader populisti hanno strategicamente sfruttato i sentimenti e gli umori degli elettori ed elettrici di questi tempi e contemporaneamente hanno cavalcato l’onda mediatica che vi si presentava giorno dopo giorno. In questo modo, Boris Johnson ha stra-vinto in Gran Bretagna puntando tutto sull’epopea del processo di uscita dall’Unione lo scorso dicembre, mentre Donald Trump si è fatto carico di re-interpretare il “vero spirito” degli Stati Uniti, etichettando la sua avversaria Hilary Clinton e i suoi sostenitori come dei ricchi elitari lontani dalla reale grande America, durante l’ultima tornata elettorale.
Questo atteggiamento senza compromessi e arrogante si è scontrato con il coronavirus e ciò che ne comporta, ovvero la messa in discussione della quotidianità e più in generale, la sostenibilità del sistema vigente (economico e politico) che i partiti dei due paesi sostengono con decisione. Con l’inizio della crisi i due leader si sono trovati a dover passare dal “Get Brexit Done” e “We are going to win so much” a un atteggiamento di maggiore incertezza nei confronti del futuro. Per questa ragione, inizialmente entrambi hanno sottovalutato il problema, negando la possibilità di un lockdown.
Il Gabinetto di Johnson è stato allertato di questa possibilità a fine gennaio; non solo il primo ministro britannico ha descritto lo scenario come un mondo post-apocalittico poco improbabile, ma ha anche dato priorità ai festeggiamenti della Brexit. E così nel suo discorso di inizio febbraio ha dichiarato che la Gran Bretagna sarebbe diventata il “superman del libero mercato” e durante la prima settimana di marzo ha detto che il Regno Unito avrebbe continuato il “business as usual”. Dopodiché, con la situazione in peggioramento, il leader conservatore ha prima consigliato il “social distancing” per poi decretare il lockdown per il 23 di marzo.
A inizio marzo Donald Trump ha minimizzato il rischio della pandemia affermando che il coronavirus era una montatura e che si trattava di una comune influenza sotto controllo. Per questa ragione secondo il presidente la vita quotidiana doveva continuare come se nulla fosse. Nonostante l’ostinato atteggiamento di Trump, alcuni stati hanno progressivamente istituito il lockdown. Il 22 marzo, un terzo della popolazione statunitense era in lockdown (California, New York, Illinois, Connecticut, New Jersey, Ohio e Louisiana). Secondo un’inchiesta di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera del 14 aprile, gli unici sei stati che a metà aprile ancora non avevano imposto un lockdown erano tutti repubblicani – repubblicani anche coloro che hanno alla fine ordinato la chiusura per ultimi con lievi eccezioni. Il colpo finale è proprio arrivato in quei giorni quando il presidente Usa ha accusato l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) di aver tenuto nascosti i dati relativi all’influenza da Covid-19 e per questa ragione ne ha negato i fondi.
Leggendo questi dati a luglio 2020 con la consapevolezza del disastro di morti e contagi nei due paesi, si può affermare che entrambi i governi hanno agito nei confronti della pandemia in modo politicizzato e scellerato. Entrambi i leader sono in calo nei sondaggi per la gestione coronavirus ed entrambi dovranno affrontare due sfide che li vedrà protagonisti: le elezioni presidenziali Usa di novembre e la Brexit di dicembre. Boris Johnson dovrà sperare che il suo alleato politico venga riconfermato per poter instaurare un asse politico-economico privilegiato dopo l’uscita dall’Unione. Ma oltre alla loro popolarità, Boris e Donald dovranno fare i conti con la crisi economica post-coronavirus che i due paesi iniziano a percepire e che in futuro sarà probabilmente ancora più gravosa.
Aborto: lo stato di un diritto
di Lucia Marchetti
Di diritto all’aborto negli Stati Uniti si continuerà a discutere ancora diffusamente in vista delle elezioni presidenziali di Novembre 2020.
La lotta femminista a tutela dei diritti riproduttivi delle donne americane ha una lunga storia e ottiene i suoi primi concreti risultati con le sentenze della Corte Suprema Griswold v. Connecticut del 1963 e Eisenstadt v. Baird del 1972, con le quali si legalizzò l’utilizzo della pillola anticoncezionale, prima per le donne sposate e poi anche per le nubili.
Nel 1973, con la sentenza Roe v. Wade, la Corte suprema federale stabilì che l’aborto era legale anche in assenza di problemi di salute della donna, del feto o di ogni altra condizione che non fosse la libera scelta della donna; questa stabilì che nessuno Stato americano avrebbe mai potuto proibire l’aborto entro il primo trimestre dal concepimento e che questo era legale fino al punto in cui il feto diventava in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno (circa 24-28 settimane); l’aborto era poi legale in caso di pericolo per la salute della donna anche qualora la soglia oltre il quale il feto è in grado di sopravvivere al di fuori dell'utero materno fosse stata superata.
La sentenza è sin da allora contestata da attivisti e politici “pro-life” e gli attacchi sono aumentati con la nomina, da parte del presidente Trump, di due nuovi giudici della Corte Suprema noti entrambi per le loro posizioni conservatrici, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh.
Alcuni degli Stati più conservatori hanno trovato dei modi di aggirare la sentenza, introducendo ostacoli di varia natura, soprattutto economici, ad esempio sfruttando l’Hyde Amendment, che esclude i costi dell’interruzione di gravidanza dalle spese coperte dal medicaid. Missouri, North Dakota e Utah hanno introdotto legislazioni restrittive che minacciano il diritto di scelta e in altri sei Stati, invece, sono in corso contenziosi giuridici: Tennessee, Texas, Alabama, Mississippi, Oklahoma, Kansas. Il 29 giugno il governatore repubblicano dell’Iowa Kim Reynolds ha firmato una legge che richiede 24 ore di attesa prima di poter ottenere l’interruzione di gravidanza. Il direttore esecutivo dell'Iowa Planned Parenthood North Central States Erin Davison-Rippey ha annunciato in una nota di voler procedere con una causa legale: “È già abbastanza difficile per molti abitanti dell’Iowa accedere ai servizi di aborto, specialmente nel mezzo di una pandemia globale. Questo è chiaramente uno stratagemma politico per creare ostacoli all'assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva nell’Iowa."
In Mississippi sono ancora in vigore restrizioni che limitano l’accesso all’interruzione di gravidanza; la gestante deve ricevere una consulenza diretta dallo Stato che includa informazioni progettate per scoraggiare la paziente dall'aborto e quindi attendere 24 ore prima che venga fornita la procedura. La consulenza deve essere fornita di persona e deve aver luogo prima dell'inizio del periodo di attesa, pertanto sono necessari due viaggi nella struttura. I piani sanitari offerti dallo Stato ai sensi dell'Affordable Care Act possono coprire l'aborto solo in caso di pericolo di vita o di stupro o incesto. Un aborto può essere eseguito a 18 o più settimane di gestazione solo in caso di pericolo di vita, grave compromissione della salute della donna o anomalia fetale letale. Questa legge si basa sull'affermazione, che non è coerente con prove scientifiche ed è stata respinta dalla comunità medica, secondo cui un feto può provare dolore a quel punto durante la gravidanza.
I conservatori e le destre religiose sono impegnati con forza nel far accettare alla Corte Suprema il concetto secondo cui un feto è già “vitale” dal momento in cui si può percepire il battito cardiaco, riducendo di molto la finestra temporale in cui è legale abortire.
I nove giudici della Corte Suprema sono stati chiamati a valutare una legge (già temporaneamente bloccata lo scorso anno) approvata in Louisiana nel 2014 che avrebbe abilitato cliniche private e ambulatori a praticare l’aborto solo se in grado di appoggiarsi a un ospedale autorizzato dallo Stato e di garantire cure di urgenza in caso di complicazioni per la gestante. Questa legge avrebbe limitato la possibilità di abortire ad un solo dottore in una sola clinica in tutta la Louisiana, poiché gli ospedali, potenzialmente influenzati dalla politica locale, non avevano garantito i cosiddetti “admitting privileges” previsti dalla legge, costringendo la chiusura della maggior parte delle cliniche che eseguivano interruzioni di gravidanza.
La legge ricalcava un provvedimento del Texas che la stessa Corte aveva dichiarato incostituzionale nel 2016 (in Whole Woman's Health v. Hellerstedt) sulla base del fatto che limitare la disponibilità delle cliniche era un onere eccessivo per le donne in cerca di aborti legali, un diritto costituzionale determinato dalla già citata sentenza del 1973.
Il 29 giugno, il presidente della Corte Suprema John Roberts, repubblicano, si è schierato con i 4 giudici di area liberal e ha dichiarato incostituzionale la Legge antiabortista con una maggioranza di 5 contro 4.
Il risultato ottenuto non era affatto scontato, visto che l’asse della Corte dopo le ultime nomine di Trump tende a maggioranza repubblicana. Tuttavia, è già la terza volta che Roberts si schiera con i colleghi progressisti, prima in difesa dei Dreamers (figli di migranti illegali entrati negli USA da minorenni) e poi della comunità LGBTQ discriminata sui luoghi di lavoro.
Sull’aborto in particolare è già emersa la contestazione dei più fedeli alleati di Trump che accusano Roberts di non essere un vero cattolico, delusi che la nuova maggioranza conservatrice non sia riuscita a ribaltare la Roe v. Wade.
L’addetta stampa della Casa Bianca Kayleigh McEnany ha definito il risultato "spiacevole", affermando che la sentenza "ha svalutato sia la salute delle madri che la vita dei bambini non ancora nati”. "Invece di valutare i principi democratici fondamentali, i giudici non eletti si sono intromessi nelle prerogative sovrane dei governi statali imponendo le proprie preferenze politiche a favore dell'aborto per scavalcare le legittime norme sulla sicurezza dell'aborto", ha affermato inoltre in una nota.
Identikit del suprematista bianco: dal Klan ai Boogaloo
di Francesca Papasergi
Cos’è un White Supremacist?
L’espressione white supremacist si usa per identificare chiunque abbia un credo centrato su una o più delle affermazioni che riporto di seguito.
I bianchi sono geneticamente superiori ai non bianchi.
La razza bianca dovrebbe dominare su qualunque altra, soprattutto quando sono obbligati alla convivenza.
I bianchi dovrebbero vivere in società esclusivamente bianche.
I bianchi hanno una cultura superiore a tutte le altre.
Secondo i suprematisti, la razza bianca sarebbe in pericolo, minacciata da un’eccedenza sempre più grande di non bianchi che ne invaderebbero le città, le società, il posto di lavoro, reclamando per sé quel benessere che spetterebbe solo ai bianchi in quanto tali.
La White supremacy oggi
Sin dall’opposizione alla Reconstruction – il periodo immediatamente successivo alla Guerra Civile, che voleva ricucire lo strappo ideologico e sociale tra Nord e Sud, integrando al tempo stesso gli ex schiavi nella vita civile del paese - i movimenti per la supremazia bianca si sono contraddistinti come la parte peggiore degli Stati Uniti. Il più famoso, forse è addirittura inutile presentarlo, è il Ku Klux Klan. Fondato dopo la Guerra Civile Americana, caratterizzato da lunghe tuniche e cappucci bianchi, terrorizzava i neri del Sud con metodi violenti e intimidatori, bruciando proprietà, frustando e uccidendo molte persone durante orribili raid notturni. Fu ridotto al lumicino dal Presidente Grant, che lo derubricò a movimento terroristico, ma conobbe una seconda giovinezza grazie all’uscita del film Birth of a Nation. Manifesto della Lost Cause, dottrina secondo la quale le idee della Confederazione sarebbero state giuste ma sfortunate perché “aggredite” dai nordisti, che risultarono vincitori, il film di David Wark Griffith ridiede slancio al Klan, conferendogli anche una nuova estetica: prima del suo arrivo nelle sale, l’8 febbraio del 1915, non solo il Klan non aveva più alcuna consistenza, ma non aveva tra i suoi simboli la croce fiammeggiante. L’elemento fu mutuato dalla pellicola e divenne uno dei simboli stessi del gruppo, che estese la propria “platea” di nemici a tutti gli immigrati, tra cui gli italiani e agli ebrei, diventando così anche profondamente antisemita. Alla fine degli anni ’20 il Klan aveva oltre 4 milioni di adepti e aveva esteso le sue influenze anche al di là del vecchio Sud. I bollenti spiriti del KKK furono placati dalla Grande Depressione e spenti del tutto dalla Seconda Guerra Mondiale, che lo rigettò nel dimenticatoio. Sono stati gli anni del Baby Boom e delle battaglie per i diritti civili a riaccendere la miccia del suprematismo, moltiplicandone l’identità in quelli che oggi sono decine di tentacoli. Associazioni, confraternite e clan sono così tanti da dare l’impressione che contarli sia impossibile, ma Hatewatch, bollettino trimestrale del Southern Poverty Law Centre di Montgomery, Alabama, ci prova con tenacia encomiabile. Nel solo 2019 ha mappato ben 940 “hate groups”: non è facile descriverli, perché ce ne sono davvero per tutti i gusti. Dal razzista “semplice” agli integralisti cristiani, passando per neonazisti, skinhead, ultranazionalisti, il mondo dell’odio sembra non avere confini, al punto che Donald Trump, sia in campagna elettorale che dalla Casa Bianca, non ha esitato a strizzare l’occhio a questi soggetti pericolosi. Nella migliore delle ipotesi parliamo di bigotti iper religiosi che credono in una sorta di diritto divino che metterebbe la razza bianca alla guida della storia, nella peggiore di detenuti che in carcere sono entrati in contatto con la Fratellanza Ariana. Quello che complica notevolmente le cose è il sempre più ampio legame – in molti casi è una vera e propria commistione, in altri non si rileva più alcuna differenza – tra suprematisti e milizie paramilitari armate. Oggi sotto i riflettori ci sono i boogaloo boys, che alla mania per le armi aggiungono razzismo e… camicie hawaiiane. Nato sul forum online 4chan/k/, il curioso nome proviene da una battuta che circola su internet a proposito di un film anni ’80, “Breakin’ 2: Electric Boogaloo”. Si tratta di un movimento più complesso da analizzare di quanto possa esserlo uno puramente razzista o suprematista, perché alcuni dei membri si sono schierati apertamente con i manifestanti di Black Lives Matter, on line e durante i riots. Sicuramente ricorderete l’incredibile parata nel parlamento del Michigan il 1 maggio scorso: omoni apparentemente pronti per un assalto finale in battaglia, in camicia hawaiana e giubbotto antiproiettile, sono entrati nel Campidoglio quasi del tutto indisturbati. In qualsiasi altro paese i miliziani sarebbero stati arrestati; qualcuno ha sussurrato che se si fosse trattato di uomini di colore la cosa sarebbe degenerata in carneficina in pochi minuti.
Se gli Stati Uniti applicassero alle questioni interne parametri adottati in passato sul suolo di altri paesi, i Boogaloo Boys sarebbero certamente accusati di terrorismo. È certo che le agenzie federali li sorveglino, come fanno con tutte le milizie armate, ma non avendo un’identità definita – in sostanza, non esiste un identikit del Boogaloo medio – si fa tutto più sfumato, e quindi difficile. Quel che è certo è che i membri di questa sgangherata compagine sono armati fino ai denti e che un innocuo capo d’abbigliamento, da sempre associato a surf e cocktail gustati sulla spiaggia, è oggi il simbolo di chi vorrebbe scatenare la prossima guerra civile.