#12 Brainstorm - La locura trumpiana
Negli ultimi giorni Donald Trump ha fatto parlare di sé per alcune affermazioni sulla sua futura politica estera. Ecco le opinioni di Matteo Muzio, Giacomo Stiffan, Laura Gaspari ed Emanuele Monaco
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
Nell'ultimo periodo il presidente eletto Donald Trump ha generato grattacapi a livello internazionale, non escludendo di usare la forza per controllare direttamente il Canada, il canale di Panama e la Groenlandia.
Ecco le opinioni di Matteo Muzio, Giacomo Stiffan, Laura Gaspari ed Emanuele Monaco.
«Un modus operandi che forse può funzionare nell'ambito immobiliare newyorchese, ma di sicuro non funziona nell'ambito delle relazioni internazionali»
di Matteo Muzio
Siamo di fronte alla solita tattica trumpiana, mutuata dal discusso avvocato newyorchese Roy Cohn: attaccare sempre per ottenere accordi migliori. Un modus operandi che forse può funzionare nell'ambito immobiliare newyorchese, ma di sicuro non funziona nell'ambito delle relazioni internazionali. Nessuna sorpresa che già non è stata vista nel quadriennio 2017-21. Quello che allora non c'era è la percezione di un “mandato popolare” netto. Anche stavolta, però, i numeri parlano chiaro. Trump è stato eletto da una maggioranza di americani esigua, certo non tale da cambiare in modo così radicale il territorio degli Stati Uniti.
C'è da considerare che possiamo anche trovarci di fronte all'ennesima cortina fumogena lanciata da un Presidente senza ritegno alcuno, che considera soltanto il risultato della "vittoria" come solo valore che conta, forma mentis che spiega facilmente la sua ammirazione per dittatori e leader autoritari. Infine, c'è l'evocazione di un'America ingenua e fiduciosa nel suo "destino manifesto" di espandersi territorialmente senza fine. Una fantasia di estrema destra che ormai fa sorridere, se questa estrema destra non fosse al potere e con obiettivi ben più sinistri per quello che riguarda la natura stessa delle istituzioni federali americane, senza bisogno di avventure imperialiste che in questa fase servono solo a distogliere l'attenzione dal caos che alligna alla Casa Bianca.
«In sintesi, meno proiezione globale e più controllo diretto sui vicini»
di Giacomo Stiffan
Sul momento le sparate di Donald Trump mi hanno lasciato abbastanza indifferente. È Trump che fa Trump.
Per quanto riguarda Panama, la sua è un'affermazione su uno snodo commerciale cruciale in quella che lui considera l'area d'influenza statunitense più prossima. Credo che, di fronte a una minaccia di chiusura, gli Stati Uniti userebbero la forza chiunque fosse il Presidente in carica, e credo che quello di Trump sia stato più che altro un modo per attizzare i suoi sostenitori più conservatori.
Riguardo il Canada, la sua mi sembra un'iperbole volta a influenzarne la politica interna in vista della fine dell'era Trudeau.
Quanto alla Groenlandia, nei prossimi decenni il cambiamento climatico aprirà nuove rotte e l'Artico diventerà una via navigabile, con una riduzione fino al 40% del tragitto tra Europa e Asia rispetto all'utilizzo del canale di Suez. Nell'Artico apparirà quindi una nuova scacchiera, e la Groenlandia sarà una delle caselle principali, anche grazie alle risorse minerarie che si libereranno con lo scioglimento dei ghiacci perenni. Qualsiasi persona con un minimo d'istinto di autoconservazione comprende che questa è una notizia terribile per il pianeta. Trump, invece, da una parte nega il cambiamento climatico e dall'altra pensa già a come approfittarne. "Tutto e il suo contrario", per citare l’attualissimo Mussolini di Luca Marinelli. Niente di nuovo quindi, è il suo classico approccio transazionale, ultrapragmatico e amorale.
Mi preoccupa più un'altra considerazione. La politica trumpiana finora ha mostrato soprattutto il suo lato isolazionista, tuttavia una vocina nella testa mi dice che forse in questo secondo mandato potremmo vedere anche il suo lato imperialista. Soprattutto verso i propri alleati, cui cercherà di mettere uno stretto guinzaglio, piuttosto che optare per una collaborazione tra pari.
In sintesi, meno proiezione globale e più controllo diretto sui vicini, su quella che alcuni chiamano la sua "sfera d'influenza". Sotto questo aspetto, le sparate di Trump mi ricordano quelle di Putin, mentre dall'altra parte del Pacifico ogni scusa è buona per allungare le mani su Taiwan: per Xi, le iperboli di Trump sono una scusa servita su un piatto d'argento.
«Trump starebbe “plagiando” la strategia che Putin utilizzò nel 2013»
di Laura Gaspari
Ed eccoci qui di nuovo, con Donald Trump che non ancora rientrato alla Casa Bianca e già avanza pretese territoriali. Lo fa dalla solita conferenza stampa delirante a Mar-a-Lago, con un susseguirsi interminabile di cannonate e sparate da gran titolone di giornale: rinominare il Golfo del Messico, Golfo d’America, comprarsi Panama e Groenlandia, fare del Canada il cinquantunesimo stato.
Tra ilarità, panico e Don Jr - il primogenito presidenziale - che vola in Groenlandia a farsi tantissimi selfie con un’apparente popolazione felice (che secondo fonti locali è stata tutta una messinscena), Trump non ha escluso nemmeno guerre commerciali con la Danimarca e invasioni territoriali. Riguardo la Groenlandia non era nemmeno la prima volta che il Presidente eletto ci provava: nel 2019 aveva avanzato la possibilità di comprare l’isola che, ricordiamo, è territorio della Danimarca, ricevendo indietro un grossissimo “no”.
Cinque anni e la sinfonia non cambia. Probabilmente dietro le mire di Trump su Panama e Groenlandia c’è un interesse economico, specie con il riscaldamento globale che scioglie i ghiacciai e scopre terre sfruttabili; ma anche di controllo marittimo nel caso di Panama, e non sarebbe la prima volta che stivali statunitensi calcano il suolo panamense. Trump si è fissato, e da buon Re assoluto che crede di essere, pretende di ottenere tutto.
Tuttavia, un’interpretazione interessante ce la dà sul suo account di Bluesky lo storico Timothy Snyder. Secondo il Professor Snyder, Trump starebbe “plagiando” la strategia che Putin utilizzò nel 2013, prima dell’invasione della Crimea dell’anno successivo, specie nell’uso della retorica del popolo locale che segretamente vuole essere guidato, attaccando il Paese a cui appartengono, il fatto che i confini non contano (solo se non ti chiami Messico, nda). Tutto Cremlino e veramente poco americano o MAGA, dice Snyder, un modo per Trump per coprire l’amico Putin nella sua aggressione, arrivata al terzo anno a breve, dell’Ucraina. Un modo per distrarci dunque su vittorie fittizie in “guerre”, mentre sta per mollare la presa sul vero conflitto proprio su suolo ucraino, con tutte le conseguenze del caso.
Il Professor Snyder spera di sbagliarsi, dice. Lo spero anche io sinceramente, come spero che nessuno dei deliri trumpiani si avveri. Tuttavia, visto che la distopia sta superando la realtà stessa, non mi stupirei molto se uno dei prossimi mesi qua su Jefferson comparisse un qualche nostro contributo sulla realizzazione dei pazzi sogni di Donald Trump, el conquistador.
«Un imperialismo da operetta»
di Emanuele Monaco
È tornato Mckinley, forse. In un’era come la nostra in cui il futuro non genera speranza e fiducia, è normale che la politica si adegui promuovendo il ritorno a tempi visti come più felici. Lo si vede nella retorica dei movimenti conservatori (paradossalmente anche in quella dei cosiddetti progressisti), soprattutto su temi come la protezione di settori economici, preservazione di diritti acquisiti e gestione di flussi migratori. Trump da parte sua non solo ha fatto della restaurazione il tema centrale della sua attività politica (cos’altro è Make America Great Again?), ma ha addirittura un periodo storico preciso al quale farebbe tornare gli Stati Uniti: quello delle amministrazioni repubblicane degli anni ’90 del XIX secolo.
L’ossessione non è nuova, tanto che uno dei presidenti meno conosciuti della storia americana, William McKinley (1896-1901), trova il modo di essere citato in più discorsi di Trump (oggetto di tante weave, quelle divagazioni confuse diventate il suo stile retorico). Non è sorprendente, McKinley fu principalmente il presidente dei dazi doganali e dell’espansione imperiale nell’emisfero occidentale dopo la guerra con la Spagna, in un periodo di ripresa dopo la tremenda crisi del 1893, probabilmente aggravata anche dai dazi che portano il suo nome (approvati quando era capo della commissione Ways and Means della Camera). “In the 1890s, our country was probably the wealthiest it ever was because it was a system of tariffs” Trump ha detto. Ovviamente non è vero, ma rende l’idea.
L’idea raffazzonata e buttata lì di lanciarsi in esuberanti quanto confuse avventure imperiali, i piani di annettere Canada, Groenlandia, Panama (perché non anche la Sicilia a questo punto?), sono un altro maldestro tributo allo sfortunato presidente assassinato nel 1901. È un imperialismo questo che, volendo dargli credito, ha più in comune con lo spirito marziale e il bullismo diplomatico di Theodore Roosevelt, successore di McKinley, utile a fare la voce grossa, intimidire alleati, ridimensionare retoricamente la proiezione statunitense allo stretto vicinato. Calato nel XXI secolo, nei fatti è solo un imperialismo da operetta, utile forse a dare l’illusione di riportare il Paese a tempi più semplici.