#10 Brainstorm - Paura e delirio al Washington Post
La redazione vorrebbe endorsare Kamala Harris, Jeff Bezos no. Quale migliore occasione per testare un nuovo format per Brainstorm?
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson – Lettere sull’America che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
Nei giorni scorsi l'editore del Washington Post, Jeff Bezos (già proprietario di Amazon e Blue Origin) ha imposto al giornale di non endorsare alcun candidato alla presidenza. La cosa ha fatto inviperire la redazione dato che la testata, al pari del New York Times, da molti anni vede il proprio editorial board prendere posizione. Si tratta di un’usanza che nel concreto non muove nulla, ma trasmette un concetto di onestà intellettuale al quale il board tiene molto; ma, più di tutti, ci tengono i lettori, con ben il 10 per cento di disdette da parte degli abbonati dopo questa decisione. Un boicottaggio in piena regola, come non si era mai visto.
In un editoriale Bezos ha spiegato la sua posizione, mentre l’editorial board illustrava la sua in un altro, in una sorta di schizofrenia editoriale.
Abbiamo scelto questo argomento e la decima puntata di Brainstorm per testare un nuovo format da affiancare a quello delle precedenti uscite: una chat, come quella della nostra redazione. Uno spezzone di vita di Jefferson che vuole portarvi dentro la nostra community.
Cominciamo.
Antonio J Luchini: Chissà il motivo…
Giacomo Stiffan: «I wish we had made the change earlier than we did, in a moment further from the election and the emotions around it. That was inadequate planning, and not some intentional strategy». Certo Jeff, sei molto credibile, a pochi giorni dalle elezioni.
Emanuele Monaco: Ah va beh, tutto a posto allora! Era una coincidenza, non una figuraccia! Bezos qui dimostra di aver agito di impulso, senza coordinare quella che è stata a tutti gli effetti una scelta politica e di business.
Lorenzo Tronfi: Se lo avesse scritto un anno fa, poteva essere anche credibile.
GS: Ma neanche. Avrebbe dovuto farlo appena dopo le elezioni. Così, a caldo, ci vedo più premeditazione che azione d'impulso.
Laura Gaspari: Sì, poteva stare zitto fino alla settimana prossima, avrebbe fatto una figura migliore.
EM: Da un po’ di tempo in realtà si è palesato un riallineamento del settore tech. Stanno scommettendo su una vittoria di Trump, quindi lui non si voleva esporre.
GS: Per me è più teoria dei giochi. Da miliardario, mi conviene di più posizionarmi pro Trump, pro Harris o neutro? Se vince Trump, che è noto per la sua vendicatività, il posizionamento a suo favore mi avvantaggia, mentre rischio grosso sia con l'endorsment a Harris che con la neutralità. Se vince Harris bene o male non ci rimetto in nessuno dei tre casi. Ergo, è più conveniente schierarsi con Trump.
LG: Come hanno giustamente detto altrove, schierarsi con Trump non ti dà automaticamente sicurezza di sopravvivenza.
GS: Certo. Ma non farlo te ne da ancora meno, se vince lui.
EM: Come si dice nel mondo delle scommesse, i giocatori stanno hedging their bets.
LG: Se stai neutrale hai più possibilità…
GS: Non ne sono così sicuro. Trump mi pare ragioni più in maniera dicotomica: o mi sei fedele o sei un nemico.
EM: Lo si è visto anche per Mike Pence e J.D.Vance, o sei all in o sei fuori (nel caso di Pence, rischi anche la pelle).
LG: Verissimo, però secondo me a mantenere una posizione neutrale forse Bezos vuole solo dare parvenza di essere super partes (l’ha detto in realtà) e in caso alzare le mani a prescindere che vinca una parte o l’altra senza farsi nemici. Solo che oggettivamente non è a mio parere l’elezione giusta per voler stare così nel mezzo e a quanto pare il messaggio è arrivato chiaro da una fetta dei suoi subscribers. Dopo eh, io ho sempre quella vocina dietro la testa che dice che in realtà a Bezos non interessa molto di questa perdita.
GS: Che la sua sia una scelta paracula è poco ma sicuro. Torniamo sempre ai giochi: per le sue tasche è una piccola perdita al fine di tutelarsi da qualcosa di molto peggio. Una sorta di premio assicurativo. Se va su Harris son soldi spesi per niente, se va su Trump si è tutelato da un danno ben maggiore.
LG: Mi facevano notare che a Bezos la credibilità del WaPo interessa. Detto in parole povere, vuole darsi un tono. Secondo voi quanto questo in realtà è vero? E quanto questo 10 per cento in meno di subscribers lo prenderà alla sprovvista? Io inizio a pensare che un fondo di verità ci sia. L’editoriale di oggi era impanicato, motivo per cui era brutto e inappropriato.
EM: Sarebbe divertente se qualcuno decidesse di far trapelare il testo dell’iniziale endorsement a Harris. Qui si rischia di compromettere la credibilità individuale oltre che quella del giornale.
GS: Non vorrei essere nei panni di Bezos in quel caso.
EM: No, perché Bezos la mette sul piano della credibilità della stampa. Questa mossa, a prescindere dal/la candidato/a per cui si parteggia, la mette a forte rischio ridicolo. I giornali stampati soffrono molto per svariate ragioni: forse è vero che sono locomotive a vapore ai tempi dell’alta velocità, prodotto di qualità che viaggia su mezzi passati, però se questa è la soluzione che ha in mente Bezos – prendere decisioni all’ultimo minuto che fanno sì che la dialettica interna di un giornale diventi la notizia – beh direi che il re dell’everything store ha un bel problema di business model. Se poi la scelta è davvero figlia di ragionamenti paraculi da scommettitore impaurito, allora il WaPo è proprio spacciato.
GS: Il mio gut feeling (ogni riferimento a Nate Silver è puramente casuale) mi fa purtroppo propendere per l’ultima frase, Ema. Il tempismo con il quale è uscito con questa novità stride come le unghie sulla lavagna rispetto ai contenuti del suo editoriale. Mi sembra che, più che altro, abbia cercato di chiudere il recinto quando i buoi erano già scappati, e lo aveva aperto lui. A proposito di fughe, avremo una diaspora di penne dal WaPo secondo voi?
EM: Al momento la diaspora è degli abbonati, posti davanti a un editorial board che decide di non fare il proprio lavoro, cioè proporre una visione opinabile del giornale sugli eventi correnti. Comunque sì, immagino che molti editorialisti del WaPo adesso si stiano facendo due conti.
LG: Conoscendo da vicino il giornalismo americano probabilmente sì, ma non mi immagino un esodo così grosso. Se scrivi al WaPo hai già un bel nome, ma le redazioni tendono a essere molto esclusive, tenendoti abbastanza aggrappato. Non so se mi spiego. Vedremo. Io intanto sto pensando di disdire il mio abbonamento dopo l’editoriale di Bezos (sì, non mi è andato molto giù, si vede?).
EM: Personalmente, se vivessi in un un vuoto cosmico in cui non ci sono elezioni tra una settimana, senza alcuna cognizione del contesto storico politico americano («falling from a coconut tree»), sarei perfettamente d’accordo con la decisione di Bezos. Per me non è in ogni caso una ragione che mi porta a voler disdire l’abbonamento, anche se alla luce del contesto e della realtà quell’editoriale è surreale.
GS: No dai, disdire no, anche perché costa pochissimo rispetto alla stampa italiana per una qualità che è comunque nettamente superiore. Mi preoccupa più che altro la sorte di un giornale storico come il WaPo. La mossa di Bezos sarebbe stata ottima fuori dal contesto elettorale. Intendo proprio come modello di business, un modo per differenziarsi dall’ingombrante concorrenza del NYT. Ma se davvero era quello che voleva – personalmente non lo credo – ha fatto un errore grossolano dal punto di vista imprenditoriale. Mi chiedo quali saranno i suoi prossimi passi a questo punto. Lasciare che il WaPo si dissangui? Puntare a un pubblico diverso? Intervenire sul lato economico per ingolosire nuovi abbonati?
Su questi interrogativi, ai quali non abbiamo risposte, chiudiamo questa puntata di Brainstorm. Se questo test è stato di vostro gradimento e se avete piacere di leggere più contenuti di questo tipo in futuro, fatecelo sapere qui sotto nei commenti.